domenica 25 marzo 2012

One minute paper


Quante parole, frasi, concetti si possono scrivere in un minuto? Ovviamente dipende da un’innumerevole quantità di circostanze: l’umore, la stanchezza, l’interesse per ciò di cui si scrive, la conoscenza dell’argomento, le precedenti riflessioni... La faccenda diventa più interessante se ci domandiamo, invece, a cosa serve scrivere qualcosa in un solo minuto.
Anzitutto puntualizziamo che si tratta di una tecnica abbastanza diffusa tra docenti, istruttori, leader e quanti altri abbiano a che fare con gruppi di persone, da cui si vuole ricevere un’impressione generale riguardo a una lezione, una presentazione, una riunione. Di solito si dà un foglio di carta completamente bianco e si chiede ai partecipanti di scrivere liberamente tutto quello che passa loro per la testa, come idee, suggerimenti, collegamenti, critiche, emozioni. Tutto è permesso, tutto è consentito. L’unica regola è che si abbia un solo minuto a disposizione, dopodiché i fogli vengono ritirati. La quantità e la ricchezza di informazioni che si può ricavare da un solo minuto di brainstorm è sorprendente, ma l’aspetto che mi interessa qui è un altro: la limitazione del tempo di scrittura.
I risultati del test sarebbero diversi se ai partecipanti venisse dato un giorno di tempo. Immagino che il foglio sarebbe riempito completamente, le frasi sarebbero meno frammentarie, le liste sparirebbero per dare posto a pensieri più elaborati, non solo grammaticalmente. Eppure si tratta delle stesse persone, con le medesime emozioni e pensieri personalissimi.
Che effetto ha, dunque, la costrizione temporale sulla scrittura? E ancora: a cosa serve scrivere qualcosa in un solo minuto?
A rischio di sembrare banali, la risposta è che si tratta di un allenamento di creatività e sintesi che ci forza a giocare con i tempi della modernità. In rete il biogno di essere brevi e creativi si è ormai consolidato negli ultimi anni. Ha poco senso, infatti, reagire a un tweet dopo diversi giorni, perché una discussione può esaurirsi già solo dopo un paio di ore. Ecco perché il tempo è cruciale: bisogna ribattere immediatamente. Allo stesso modo, i tempi stretti di questa frenetica interazione hanno bisogno di contenuti validi, in grado di catturare l’attenzione e colpire nel segno. Questo bisogno è dovuto anche alla sensazione di smarrimento di cui il lettore digitale può fare esperienza in rete, quando è sommerso da troppa informazione che vuole in qualche modo selezionare. L’ansia di voler abbracciare quanto più possibile farà sì che verranno preferiti i testi brevi e concisi, estremamente informativi e di ridotte dimensioni. Per questo darsi un limite di tempo per organizzare i propri pensieri e metterli nero su bianco può essere utile. Magari all’inizio i risultati saranno deludenti ma, a forza di persistere, prima o poi si diventa dei perfetti scrittori digitali.

domenica 18 marzo 2012

Uno sguardo da Facebook


È risaputo che la moderna scrittura deve adattarsi alle esigenze (spazio-temporali) degli attuali sistemi digitali, come i 140 caratteri di Twitter o le referenze su LinkedIn, ma ultimamente mi è capitato di sentire una critica al cosiddetto “sguardo da Facebook”. Secondo questa critica, sarebbero in molti a vivere tutti i momenti importanti della propria vita cercando di inquadrarli mentalmente all'interno di una combinazione di foto e testo da utilizzare all’istante sul famoso social network. Questa inquadratura, attualizzata con la videocamera dello smartphone e un messaggio per aggiornare il proprio stato su Facebook, distoglierebbe, secondo i più accaniti critici, dalle sensazioni che si stanno vivendo, limitando a una breve e superficiale “registrazione” di ciò che invece potrebbe essere sentito e interiorizzato più consapevolmente.
La cosa fa pensare alla vecchia battuta secondo cui gli americani non fanno le  vacanze per godersele ma per filmarle.
Personalmente credo che vivere una qualunque situazione con in mente lo scopo più puro della comunicazione, ovvero quello della condivisione, non debba essere considerato come un problema. Ovviamente diventa patologico quando si vuole condividere con gli amici di Facebook ciò che accade tra le pareti del bagno o sotto le proprie lenzuola, oppure quando si ha una pagina aperta a tutti e i potenziali ladri possono apprendere che il nostro appartamento sarà deserto mentre spieghiamo con dovizia di particolari a che ora parte il nostro aereo per le Maldive, ma nella maggior parte dei casi lo ritengo un allenamento abbastanza piacevole e filosoficamente corroborante. Vivere o godersi un momento può essere estremamente soddisfacente per i sensi, ma altrettanto effimero, mentre vivere un momento per raccontarlo, e porsi la questione di cosa e come raccontare l’evento, sottende un’attività intellettuale di non poco conto. In più, l’attimo registrato, è in qualche modo riproducibile a testimonianza nostra (e a futura memoria) di qualcosa che si è provato in un determinato punto della nostra vita.
C’è poi un altro motivo per cui lo sguardo da Facebook andrebbe incoraggiato, e si chiama consapevolezza. Vedere qualcosa che accade e pensare a come raccontarla agli altri implica un grande spirito di interpretazione. Come i giornalisti, che filtrano ciò che vedono (quando fanno il loro dovere), ma che per filtrare devono capire ciò che hanno visto, ne devono avere piena consapevolezza, altrimenti sono costretti a usare un linguaggio astruso e oscuro.
Quel giorno in cui lo sguardo da Facebook, oltre alle facezie del mondo quotidiano, verrà applicato da tutti anche alla politica, allora ci sarà la vera democrazia.
Sarà anche per questo che, secondo Eurostat, in Olanda solo il 7% della popolazione non ha mai usato internet mentre in Italia arriviamo alla cifra assurda del 39%?

Da Nord a Sud


Quando la mattina arrivo all'università spesso è ancora buio. No, non sono un irriducibile mattiniero, di quelli che non hanno bisogno della sveglia perché alle sei e mezzo si sono gia rasati, lavati e vestiti, ma il fatto è che qui in Olanda d'inverno c'è poca luce. Vado in bici fino alla fermata dell'autobus e viaggio più di un'ora prima di raggiungere il campus. Durante il tragitto mi rilasso ascoltando un podcast, guardando un film o portandomi del lavoro arretrato.
La strana lettera gotica che svetta sulla torre più alta della Hanze University sembra una lingua di fuoco, come una stella cometa che guida i giovani verso il punto dove arde la conoscenza.
Il freddo, però, è al momento l'unica cosa che brucia, per cui mi intrufolo rapidamene in cerca di tepore lungo i potenti termosifoni dei corridoi.
A volte ricevo qualche studente che sta preparando la tesi, altre volte non passo neppure dal mio ufficio e mi precipito in classe, giusto per non conformarmi troppo allo stereotipo dell'italiano perennemente in ritardo.
Mentre parlo di semiotica, teorie della narrazione e di usi e gratificazioni, lancio un'occhiata fuori della finestra. Come al solito, piove a intermittenza e, quando si lascia intravedere, il sole è un pallido disco annegato nel cielo invernale.
L'Europa del nord si somiglia un po' tutta: la vita è ordinata, le situazionui prevedibili, l'organizzazione efficiente, gli estremi e le diseguaglianze ridotti, la libertà imprescindibile, la gente poco espansiva e il tempo (meteorologico) terribilmente instabile. Esattamente l'opposto della mia Sicilia.
Eppure non so se mai potrei tornare al Sud. Le due realtà sono inconciliabili e tu devi scegliere, o l'una o l'altra. È una scelta che fa comunque male, perché lascia sempre un senso d'incompiutezza. Per questo il dilemma tra Nord e Sud è diventato per me un tema narrativo.
Vivere lontano, provare nuove esperienze, calibrare una nuova prospettiva, tematizzare i propri conflitti: ecco cosa vuol dire pe me scrivere.
C'è uno scritto in cui ho ampiamente affontato l'opposizione Nord-Sud, uno scritto ambientato a Malta. Malta, distante 90 chilometri dalla Sicilia, è quanto di più soleggiato, meridionale, caldo, afoso e aspro possa esistere: le rocce spaccate dai capperi, le facciate delle chiese barocche che su cui rimbomba lo sciabordio del Mediterraneo, la storia plurimillenaria dei dolmen di Hagar Qim che annegano su uno sfondo azzurro cielo-mare abbacinante, le velate allusioni all’architettura araba, i colori piccanti delle pietanze e dei mercati... Il confronto con l’immensa e ordinata pianura olandese, attraversata da piste ciclabili e qualche monastero gotico, avvolti dal verde violento dell’estate e dalla pioggia fine dell’autunno, è fin troppo semplice. Ma il mio scritto è anche questo: un semplice e incessante paragone che gioca con gli opposti per sprigionare energie, come dentro un campo elettrostatico, nell’incessante ricerca della differenza di potenziale.