venerdì 18 maggio 2012

Paper, tesi, tesine: la giusta ricetta per un promiscuo rapporto tra scrittura e università


Diciamocelo pure: gli insegnanti sono costretti a leggere un’enorme quantità di pagine scritte dagli studenti, e non sempre il contenuto è piacevolissimo.
Quando studiavo all’università ho dovuto scrivere innumerevoli tesine (o paper, come venivano chiamati per darsi un tono più interessante e scientifico) riguardanti materie che spaziavano dal primo al quinto anno; ho dovuto frequentare, poi, un paio di laboratori di scrittura, tra cui quella giornalistica, e infine ho scritto una tesi di oltre centocinquanta pagine. Più tardi ho scoperto che i paper non erano una pratica comune nel mondo accademico italiano. A quanto pare erano i miei professori illuminati dal contatto con realtà internazionali che ci allenavano alla scrittura con quello stratagemma del lavoro extra (sì perché gli esami, sia orali che scritti, si dovevano fare comunque).
Non so come vadano adesso le cose in Italia, ma presumo che siano peggiorate, perché le facoltà sono sempre più affollate, il personale docente si tiene al minimo e sembra impossibile leggere migliaia di tesine tra la fine delle lezioni e i primi appelli d’esame. In più, per la laurea di primo livello non è più richiesta quella consistente lunghezza che Umberto Eco stimava tra le 100 e le 400 pagine nel suo saggio Come si fa una tesi di laurea.
In Olanda devo leggere settimanalmente una quantità di papers, essays, reports, e theses che da soli basterebbero ad alterare il tasso alcolemico di un elefante. Gli studenti riflettono producono, scrivono (purtroppo non sempre in quest’ordine) senza sosta e sono insaziabili: vogliono sapere cosa ne pensi, come possono migliorare, come si può intavolare una discussione su quello che hanno scritto. Gli effetti variano tra il narcotizzante all’alterazione psicofisica simile a quella causata dai cannabinoidi.
Ad ogni modo, sarà davvero pesante per i professori, eppure esercitare la scrittura con regolarità è l’unico modo per raggiungere una perfetta padronanza della lingua scritta, che è poi ciò che fa la differenza in molti lavori, soprattutto nel campo della comunicazione.
Impossibile produrre un testo (di qualuque genere) senza una pratica costante.

Scrivere, scrivere, scrivere... senza moderazione. Questa è la via da seguire all’università per futuri laureati pronti a competere adeguatamente. La povera controparte dovrà dunque leggere, leggere e leggere senza sosta. Si perdonerà, dunque, se alcuni docenti hanno sviluppano una capacità di “lettura automatica” per preservare la propria vista e non essere costretti cambiare gli occhiali da lettura due volte l’anno. Questa capacità consiste nello scorrere il testo con lo sguardo a caccia di parole chiave che, una volta stanate, fanno inconsciamente soffermare sulla frase che le contiene per una frazione infinitesimale di secondo. Maggiore l’esperienza, maggiore la velocità con cui si trovano queste parole chiave.
Di solito il professore la fa sempre franca con lo studente anche se si tratta di discutere a fondo un testo “scansionato” in siffatto modo. Esiste, tuttavia, un modo per verificare se tale lettura sia stata applicata o meno: basta inserire una ricetta da cucina nella tesina e confonderla tra paragrafi di sociologia e riflessioni sulla letteratura scientifica. Di solito, trecento grammi di farina non sono degni di diventare una parola chiave.
Di una cosa, però, vorrei avvisare lo studente: che non pensi che sia uno solo il professore a praticare questo tipo di lettura, visto che c’è chi giura di aver inserito la stessa ricetta per anni in tutte le tesine senza essere mai stato accusato di monotonia e  ripetitività.