Nel suo romanzo
d’esordio intitolato La distrazione di Dio (Autori Riuniti, 2016), Alessio Cuffaro gioca con un’idea che da sempre
ha accarezzato l’umanità: avere più di una vita a disposizione, rinascere in un
altro corpo e ricominciare daccapo, portandosi dietro l’esperienza, i ricordi,
gli errori e le aspirazioni che hanno animato le vite precedenti. No, per
fortuna non è un raccontino impregnato di filosofie orientali da quattro soldi,
quelle che asseriscono la certezza della reincarnazione smemorata, la continua
condanna a una nuova vita senza ricordare la precedente, la purificazione del
karma col rischio di rinascere scarafaggi nella vita successiva (ma senza la
profondità psicologica di Kafka); al contrario, il romanzo di Cuffaro rievoca
una riflessione più profonda sull’Io e sull’Essere che si inserisce nel solco della
filosofia occidentale degli ultimi secoli, con le visioni di Nietzsche sull’Eterno
Ritorno, con Freud e Jung sull’identità in termini psicologici, sessuali e mistici,
con Beethoven che associa Pesantezza e Divenire nella Quinta sinfonia e con un
grande scrittore come Kundera, che si interroga sulla possibilità e sull’opportunità
di un ritorno ciclico delle storie umane e personali, intese come contingenze e
necessità che oscillano tra leggerezza e pesantezza. Ripetendo un proverbio
tedesco, Kundera scriveva infatti “Einmal ist keinmal”, interrogandosi fino a
che punto ciò che avviene una sola volta è come se non fosse mai avvenuto.
Nel romanzo La distrazione di Dio emerge subito la
pesantezza del protagonista Francesco, che deve trovare la propria strada e il
proprio posto nel mondo, superando immancabili difficoltà e accettando
sfide assai difficili. Ad aiutarlo ci sono sempre delle figure paterne che
sopperiscono alla mancanza di un padre degno di tale ruolo, come qualche zio
libertino che lo spinge ai piaceri dei sensi, un aristocratico che lo adotta e ne
innalza il rango e le buone maniere, o un anonimo filantropo semplicemente
conosciuto come “Fatboy” – dal quale riceverà alla fine qualcosa di veramente prezioso
– che spende la vita indulgendo ai piaceri della gola e tentando di redimere il
proprio senso di colpa per non essere stato, a suo tempo, un buon padre anche
lui.
Francesco muore
più volte nel romanzo, ma si risveglia sempre nel corpo di un’altra persona e
in un paese straniero, con tutte le difficoltà che da tale situazione possono
derivare. A parte la lingua nuova, che va imparata in fretta, Francesco fa
molta fatica a far sì che il suo vero io venga accettato a causa del nuovo
“involucro”, ovvero l’apparenza che, agli occhi di parenti e amici nuovi, rimanda
immancabilmente alla persona che abitava quel corpo prima che Francesco ne
prendesse possesso. Lo scontro tra apparenza ed essenza si fa sempre più duro,
e mette in gioco le sfere più intime come gli affetti e la sessualità, che
vanno dal complesso di Edipo di freudiana memoria (quella che prima era una madre può
diventare una bella donna da desiderare) alle crisi di identità sessuale, classificate
in tempi più moderni come “teorie del gender”.
La discrepanza
tra ciò che lui è, e quello che gli altri vorrebbero che Francesco fosse, è
notevole. A farne le spese, il più delle volte, sono le persone più vicine, e
in particolar modo i fratelli, verso i quali l’affetto provato non sempre
riesce a risolvere una perenne situazione conflittuale.
Mentre l’io di
Francesco cerca di mettere ordine all’interno di se stesso, la frenesia di
questo obiettivo viene riflessa narrativamente in numerosi esempi di case e
appartamenti da decorare, ammobiliare e ristrutturare, cui si fa cenno in
diversi punti del romanzo: un parallelismo, questo, che sembra rivelare
strutture, metafore e richiami più profondi all’interno del testo.
Un altro tema che
attraversa il testo è la narrazione tout
court. Soprattutto verso la fine, lo storytelling inteso come bisogno e
sperimentazione, tecnica e opportunità, si trasforma in una sorta di manifesto
artistico, rivelando idee sul perché si debba o si senta la necessità di raccontare
storie.
“Voglio dire… che cosa puoi raccontare che si addica a una situazione come
questa? E poi chi ce l’ha una storiella sempre pronta da tirare fuori a
comando. È assurdo. Perché le donne vogliono le storie?”
“Perché siamo degli animali narrativi.”
“Animali narrativi?”
“Esatto. Tu inventatene una e usala ogni volta. Non importa che sia in tono
o meno. Basta farci sognare un po’. L’animale ha bisogno di essere nutrito per
andare avanti.”
Dalla
consapevolezza del proprio stato di animale narrativo si passa successivamente
all’idea che la scrittura necessiti di una guida per essere esercitata.
Scoprì che scrivere è come installare l’antenna sul tetto. Ti arrampichi,
rischi l’osso del collo, ti spacchi la schiena, ma non serve a niente se non
c’è qualcuno di sotto a dirti come si vede il segnale.
Infine, dal
bisogno di avere una guida a diventare scrittori il passo è breve: si arriva al
romanzo di successo e una rubrica fissa su un periodico di grande tiratura E
poi ci sono anche case editrici, editor e lezioni di scrittura creativa offerte
ad aspiranti scrittori. Oltre a considerazioni più serie, come l’idea che l’eccesivo
autobiografismo sia volgare, quello che fa sorridere è l’ironia con cui a volte
Cuffaro fa esprimere ai suoi personaggi un’opinione sulla scrittura e sulla
figura dello scrittore:
È l’unico mestiere che non ha un luogo fisso di lavoro, non richiede
vestiti costosi, non ti servono i muscoli, non devi imparare a memoria nulla,
non hai orari, non devi rendere conto al tuo capo, piace alle donne, la gente
ti attribuisce una grande saggezza anche se non ti lavi da giorni e poi è la
cosa migliore che puoi fare se non sai fare nulla.
Per concludere,
non ci si può dimenticare dell’aspetto più metafisico che il romanzo affronta,
peraltro con una delicatezza sorprendente: Dio e il sentimento religioso. Come
il titolo stesso suggerisce, l’idea di Dio è la spina dorsale della storia,
nella quale si accetta come buona la spiegazione secondo cui una distrazione del
Creatore abbia permesso il continuo rinascere di Francesco in altri corpi. A un
certo punto c’è anche una vecchia signora che dà lezioni private di inglese al
protagonista e che viene presentata come una donna molto credente. Sarà lei a
mettere in testa il pensiero di Dio a Francesco, il quale, tra una vita e
l’altra, aveva finito per non pensarci più. Così come Dio si era distratto nei
riguardi di Francesco, anche Francesco, a sua volta, si era lasciato distrarre
da altri pensieri che ne avevano annacquato il senso religioso. E allora ecco
che si introduce con prepotenza il concetto del senso di colpa (impossibile non
vedere un legame con il sentimento religioso) come una delle chiavi di lettura
principali dei problemi dell’esistenza umana: ci si allontana dalle persone
verso cui ci si sente in colpa, perché “vivere significa mettere in ombra
qualcuno per poter prendere più luce”. Il senso di colpa, in ultima analisi, fa
morire e risvegliare altrove, lontano da chi si ama e non si vuole prevaricare;
il senso di colpa è il nemico da sconfiggere.
La ricetta per
guarire dal senso di colpa per aver messo in ombra qualcuno che si ama è
semplice, benché non di facile attuazione: “accettarlo e imparare a stare dalla
propria parte, anche se si crede di non meritarlo.”
Come andrà a
finire, dunque? Francesco, che impiega oltre un secolo a fare i conti con la
morale di Dio e con la colpa che lo assale, che a un certo punto si dichiara persino
agnostico utilizzando un inglese ai limiti del maccheronico rivolgendosi alla sua insegnante di inglese, accumula così
tanta saggezza e perplessità nelle varie vite al punto di scoppiare. E come la RAM
di un computer sovraccarico di operazioni e in procinto di bloccarsi, l’unica
soluzione sembra quella di resettare ogni cosa e riavviare il sistema
operativo.
Giuseppe Raudino