domenica 17 dicembre 2017

Esper - Il terzo occhio (recensione)

http://amzn.to/2k3HdF1Il romanzo fantasy di Valeria Terenzi intitolato Esper – Il terzo occhio (Genesis Publishing, 2017) affronta le classiche problematiche adolescenziali, come il dilemma su cosa sia giusto o sbagliato, il peso crescente delle scelte che cominciano a pesare sulla coscienza di chi si sta trasformando in adulto, il discernimento tra bene e male nell’abisso del proprio animo, nelle persone che ci circondano e negli scopi che si vogliono perseguire.
La storia, ambientata nella provincia nordamericana, è fitta di elementi che possiamo ritrovare nello storytelling televisivo che sta attualmente conquistando il pubblico più giovane a livello globale: studenti che frequentano una high school, cittadine tranquille nell’apparenza ma cariche di misteri, piccole comunità dove il gossip si accompagna a misteriosi eventi che, oltrepassando il tragico, rivelano a volte una dimensione soprannaturale. Nel caso di Esper si va ben oltre il cosiddetto mistery per approdare appunto a un genere letterario più incline al paranormale, fatto di streghe, sensitivi, lupi mannari, magia e riti esoterici. Come nelle più classiche delle storie fantasy, il bene e il male vengono rappresentati in una lotta spietata che miete vittime da entrambe le parti, e nella lotta i protagonisti acquisiscono sempre più poteri soprannaturali o conoscenze occulte che serviranno nelle successive battaglie.
I temi che vengono toccati dal romanzo sono quelli che appassionano il cuore dei liceali: l’amore, l’amicizia, la sessualità, il bisogno di trovare il proprio posto nel mondo, o forse, più semplicemente, all’interno del gruppo.
In ultima analisi, il messaggio principale del libro potrebbe condensarsi nel tentativo di guardare a fondo l’animo umano, con la certezza di trovarvi una complessità più preziosa (ma anche più contraddittoria) delle semplici apparenze: chi sembra buono nasconde delle tracce dark, chi è cattivo può a volte rivelare una dose di bontà, chi ha dei modi bruschi non manca di tenerezza e affetto, chi è dotato di un’esteriorità perfetta può nascondere una bruttezza ripugnante nel proprio intimo.
Il romanzo è corposo e le scene sono ben costruite perché rivelino aspetti dei personaggi con il giusto ritmo. La narrazione è resa in prima persona e, proprio come nelle serie televisive, alterna il punto di vista dei personaggi principali, seguendone e sviluppando le cosiddette storyline. C`è da dire, infine, che non sembra felicissima la scelta di introdurre un diario per spiegare, in poche pagine (troppo poche se paragonate al respiro dell’opera), degli antefatti troppo complessi per essere affrontati in uno spazio tanto ristretto senza compromettere la chiarezza. Il linguaggio, poi, sebbene non abbia velleità estetiche ma spieghi bene quello che l’autrice si prefigge di descrivere o raccontare, presenta una coesistenza di registri a tratti troppo diversi tra loro, che lasciano trapelare ora espressioni eccessivamente formali, ora colloquialismi che andrebbero evitati al di fuori dei dialoghi o del discorso diretto.
Nel complesso il romanzo è gradevole e può appassionare con facilità i lettori e le lettrici che apprezzano questo genere.

venerdì 10 novembre 2017

Il silenzio coprì le sue tracce (recensione)



http://amzn.to/2hNL8ogIl romanzo di Matteo Caccia intitolato Il silenzio coprì le sue tracce (Baldini&Castoldi, 2017) affronta una tematica assai cara all’antropologia che potrebbe sintetizzarsi con la seguente serie di opposizioni: natura vs cultura, animale vs uomo, selvaggio vs domestico e rurale vs urbano.
Zambo è il protagonista di questa storia, un uomo che lascia Genova per incamminarsi a sud, lungo l’Appennino tosco-emiliano, attraversando luoghi impervi e desolati in compagnia del suo cane Tobia. A fare da contraltare alla docilità, alla sottomissione e all’obbedienza del cane, animale da secoli al servizio dell’uomo, Matteo Caccia esalta – non senza ammirazione – la figura del lupo, tanto simile per carattere e patrimonio genetico all’amico fidato dell’uomo ma ben diverso per spirito di avventura e libertà. Malgrado abbiano dei lontanissimi antenati in comune, il cane è comunque un essere addomesticato, mentre il lupo rimane volitivo e indipendente. Tra le due realtà Zambo sembra non saper scegliere, anche se la propensione è tutta verso la libertà e la natura. Per esempio, il traffico urbano, il suono dell’ascensore condominiale e la mancanza di privacy a causa delle pareti sottili che permettono di sentire lo sciacquone dei vicini non fanno proprio per lui. Lo stesso legarsi a una donna, improvvisamente apparsa e misteriosamente scomparsa, ha per Zambo un che di ferino, dove la sessualità è diretta e spogliata del fardello culturale che la appesantisce con aspettative sociali e morali.
Il viaggio del protagonista ha una finalità ben precisa, ma la scelta di farlo a piedi è il primo passo verso una scoperta che andrà ben oltre lo scopo per cui lo si era inizialmente intrapreso. La montagna ha un’anima tutta sua; anche lo scorrere del tempo è diverso rispetto alla città. Zambo all’inizio non ne è consapevole, eppure, man mano che prosegue nel suo cammino, si capisce chiaramente che il suo presente si immerge ineluttabilmente in un passato fatto di poche luci e molte ombre da svelare. Il tempo si dilata, come una bolla che si gonfia e resta sospesa a mezz’aria. A volte la bolla esplode, e riporta brutalmente Zambo alle preoccupazioni della quotidianità, ma poi si ricompone presto, lasciando che Zambo torni a immergersi in un presente nel quale il futuro conta ben poco (il protagonista si libera dell’orologio, a un certo punto), dove gli appuntamenti non esistono e la temporalità del mondo moderno è tenuta lontana dai confini della natura selvaggia.
Ma torniamo al lupo. Questo animale, che intreccia il proprio cammino con quello di Zambo, è all’inizio una curiosità. Ben presto, però, diventa un’ossessione per il protagonista fino a rasentare la follia. È sempre lo stesso lupo, è sempre lui che scompare e riappare: un giovane esemplare ribellatosi al potere del padre e in cerca di una femmina per formare un nuovo branco. In questo Zambo gli somiglia molto, perché anche lui ha una sete inestinguibile di affrancamento e indipendenza da un padre troppo assente, distratto dalla carriera, dal carattere forte e risoluto, capace di provocare nel figlio un senso di inferiorità bruciante per dei successi troppo difficili da replicare.
Immagine tratta dal romanzo
Dopo alcuni incroci casuali, gli incontri tra Zambo e il lupo si fanno più frequenti e più significativi, mentre il desiderio di Zambo pende sempre più a favore di una vita lontana dalla cosiddetta civiltà (il solo pensiero di votare lo fa andare su tutte le furie).
La città e la montagna sono dunque incompatibili. La stessa violenza ha significati diversi, specialmente nel contesto della resistenza partigiana, di cui Zambo è un anomalo prodotto in quanto, a sua volta, figlio di due estremi non possono trovare un punto di contatto. Da un lato ci i fascisti, giù nelle città, che ricorrono alla violenza per mantenere il controllo, mentre chi si ribella al regime si rifugia su in montagna e usa la violenza per resistere, per ritrovare la libertà negata. Una cosa è chiara, comunque: che la violenza è inevitabile, che il combattimento non si può rimandare, che il ritorno a una felice vita in armonia con la natura è una grande bugia inventata da chi la natura non la conosce affatto.
A questo proposito vengono in mente le teorie dell’antropologo Kluckhohn, che studiava le culture in base al rapporto di dominanza, armonia o sottomissione dell’uomo rispetto alla natura. Ci sono popoli che si abbandonano ai dettami della natura, accettando e adattandosi a inondazioni, carestie, siccità; ci sono altri popoli, invece, che la natura la vogliono dominare fino in fondo, cambiandola e soggiogandola ai propri bisogni con dighe, infrastrutture e opere di ingegneria. Se le palafitte della Cambogia lasciano che l’acqua scorra senza inondare le case, le dighe olandesi sfidano il mare per tenere asciutte le case dei propri abitanti. L’opposizione tra uomo e natura, tra i bisogni del primo e la forza della seconda, è sempre conflittuale; quello che cambia è il modo di affrontare il conflitto. Come ho detto prima, Zambo sembra indeciso, e oscilla a più riprese tra i due estremi, anche se il suo oscillare è leggermente più attratto verso una delle due posizioni, come una pendola inclinata che ha perso la sua isocrona maestà. E allora, per trovare la soluzione a questo dilemma così antico eppure così attuale, cultura e natura trovano simbolicamente un punto di sintesi nel lupo stesso, che è capace di incrociarsi col cane per dare vita a un ibrido nel quale i due aspetti, domestico e selvaggio, coesistono.
La storia viene raccontata con uno stile asciutto nel quale non mancano, tuttavia, alcuni momenti di profondo lirismo nelle descrizioni di paesaggi e stati d’animo: “Il cielo a est si ingrigiva, mentre a ovest conservava a stento un color malva. Lui poteva sentire il proprio respiro e la brezza impercettibile che al raffreddarsi del mare spirava dalla costa. In quella bellezza senza tempo il mondo sembrava abbandonato e spaventoso”.
Sempre per quanto riguarda lo stile, si nota anche l’insolita scelta di inframezzare il classico racconto in terza persona con alcune riflessioni, brevi e intime, rese in prima persona dalla voce del protagonista. A questo si aggiunge anche il frequente ricorso a termini tecnici presi in prestito dal linguaggio delle scienze naturali per classificare piante e animali: in questo modo, attingendo dalla biologia per molti termini inusuali, Matteo Caccia contribuisce a rendere più forte l’atmosfera che il romanzo vuole creare.
È questo, di certo, un romanzo per chi ama la natura e le passeggiate, per chi vuole osservare quel tratto interno compreso tra Maremma e Liguria da una prospettiva inedita, e per chi è curioso di esplorare le pulsioni che alimentano attitudini e comportamenti umani.
Giuseppe Raudino

martedì 31 ottobre 2017

L'olandese volante

Qualche tempo fa in molti hanno visto circolare in rete le foto del re d'Olanda Willem-Alexander seduto in cabina di pilotaggio di un aereo di linea della KLM, compagnia di bandiera olandese. Anche se nell'ambiente aeronautico la cosa si sapeva da decenni, il mondo si è stupito nell'apprendere che un uomo, prima principe e poi re, abbia pilotato un aereo passeggeri come un normalissimo primo ufficiale.
La legge, però, è uguale per tutti: se un pilota vuole tenersi il brevetto, deve accumulare un certo numero di ore di volo durante l'arco di un anno, e deve anche sottoporsi a visite mediche con una certa frequenza. Siccome il re d'Olanda è un pilota civile, ecco che deve obbedire alla legge e seguire tutte le procedure come ogni normale cittadino, anche se in realtà non è un "normale" cittadino.
Ora, vi immaginate il capo di stato di un altro paese che lavora (anche se per qualche ora al mese soltanto) come uno dei suoi sudditi? Pensate che sia possibile che un sovrano della casa reale di Marocco, Inghilterra o Spagna si mettano a guidare aerei per normalissimi passeggeri? Sarebbe concepibile che un alto dignitario della dinastia Saudita si mettesse alla guida di una petroliera o di un Boeing?
Si tratta ovviamente di domande retoriche, perché il caso olandese è unico al mondo.
Come mai, allora, è possibile tutto questo?
A complicare la situazione, dobbiamo considerare un altro elemento. Il re siede a destra, essendo primo ufficiale, e in quanto primo ufficiale esegue gli ordini diretti del capitano, che siede a sinistra nella cabina di pilotaggio. Questo vuol dire che il re, quando è ai comandi di un aereo, deve sottostare alle decisioni e alle direttive del capitano.
Un re che sta agli ordini di un civile, insomma. Da dove viene tutta questa modestia?
In Italia sarebbe impensabile, per chi detiene anche un piccolissimo potere, rinunciare al proprio status e mettersi al di sotto di chi ha meno prestigio sociale.
La spiegazione possiamo ricercarla nell'antropologia culturale, e a venirci in soccorso è uno studioso - guarda caso - olandese che si chiama Geert Hofstede. Le sue teorie sono molto utilizzate nella comunicazione e nello storytelling interculturale, perché tengono conto delle diversità tra culture a livello di nazioni.
Una delle dimensioni culturali analizzate da Hofstede che ci aiutano a capire il motivo per il quale il re dei Paesi Bassi può prendere ordini da un collega nella cabina di pilotaggio di un aereo è la cosiddetta "Power Distance".

Fonte: https://www.hofstede-insights.com/
Con Power Distance, Hofstede intende la misura in cui coloro che hanno meno potere nella società accettano la disparità secondo cui il potere è distribuito socialmente. Più è alto il coefficiente, maggiore sarà la "distanza" tra potenti e meno potenti. Culturalmente, questo si rivela con espressioni di superiorità (lasciarsi attendere, porre tanti filtri come collaboratori e segretari), con l'uso formale del linguaggio (dare del lei piuttosto che del tu) e con gesti di riverenza vari, che cambiano di cultura in cultura.
Come mostra il grafico estrapolato dal sito ufficiale di Hofstede, l'Italia si colloca - con un punteggio di 50/100 - a metà strada nella categoria della Power Distance, mentre l'Olanda viaggia a livelli più bassi (38/100).
Le differenze culturali si esprimono anche (o soprattutto) nei contesti lavorativi internazionali. Per questo il lavoro di Hofstede è prima di tutto un mezzo prezioso per capire le dinamiche lavorative in contesti multinazionali e multiculturali.
In Italia una delle opere più significative di questo antropologo olandese è stata pubblicato col titolo di Culture e Organizzazioni. Vale la pena darci una lettura, ma sopratttto vale la pena frenarsi la lingua prima di giudicare e porsi sempre qualche domanda quando si interagisce con altre culture nel campo dello sport, degli affari, della politica e dell'arte.

sabato 7 ottobre 2017

I trogloditi della rete



Quando, sul finire degli anni trenta, una radio americana mandò in onda il racconto di un’invasione aliena utilizzando lo stile tipico del giornalismo, molti abitanti di New York abbandonarono i loro appartamenti e si diedero alla fuga, creando caos per le strade. La radio, come mezzo di comunicazione di massa, era relativamente nuova e gli ascoltatori non erano abituati a distinguere la fiction dalle news, la fantasia dai fatti reali.
Titolo centrale: Radioascoltatori nel panico, prendendo sul serio un sceneggiato di guerra - In molti abbandonano le case per sfuggire a un "attacco col gas proveniente da Marte" - Le telefonate sommergono la polizia...
Oggi gli ascoltatori radiotelevisivi sono così smaliziati che sarebbe assurdo pensare di dover fare precedere ad ogni puntata di House of Cards un messaggio che li avvertisse che Frank Underwood non è il vero presidente degli Stati Uniti, o che non esiste alcun commissario di nome Montalbano a Vigata (ammettendo per assurdo che Vigata esista davvero). Diciamo che il codice televisivo, inteso come insieme di norme, regole e consuetudini riguardanti ciò che viene trasmesso, è stato introiettato dal pubblico, a prescindere dal profilo sociodemografico e dal livello di istruzione dei singoli individui. Oggi chiunque – a parte rare e gravi carenze cerebrali – è allenato a distinguere in televisione una soap opera da un telegiornale, e questo perché sono trascorsi numerosi decenni di familiarizzazione col mezzo.
Al contrario, le cronache degli ultimi tempi fanno invece pensare che la familiarità del grande pubblico con i social media sia ancora agli albori. Non intendo ovviamente la diffusione dei social, che ha raggiunto la quasi totalità della popolazione (sono in pochi a non avere Facebook in tasca, nel proprio smartphone), quanto piuttosto la comprensione del codice che li regola e, in particolare, l’attribuzione del grado di attendibilità di un messaggio che si diffonde attraverso i social network.
Cosa è opportuno fare quando si interagisce attraverso i social? Cosa ci si aspetta e quali conseguenze può avere un messaggio ricevuto, inviato o condiviso? Bisogna fuggire di casa se si vedono gli alieni sullo schermo? Ma soprattutto, quali filtri vengono a porsi tra una notizia fondata e il resoconto che ci raggiunge?
Queste banalissime domande non trovano risposte condivise. Se esiste la necessità a livello accademico di studiare le cosiddette fake news come fenomeno sociale, e se esistono diversi esempi di rabbia e razzismo che esplodono in modo virale con frequenza quotidiana, come minimo ci si può aspettare che la maturazione, da parte del pubblico, impiegherà ancora molto tempo. E un giorno lontano, gli studiosi, guardando alle interazioni online di questi anni, si domanderanno: ma come facevano quei trogloditi digitali a insultarsi apertamente tra di loro, a mostrare spudoratamente il proprio lato razzista senza nemmeno preoccuparsi della propria reputazione e a credere alle tante stupidaggini che circolavano vorticosamente in rete, dalle pseudo-scienze alla medicina fai-da-te?