Quando, sul
finire degli anni trenta, una radio americana mandò in onda il racconto di
un’invasione aliena utilizzando lo stile tipico del giornalismo, molti abitanti
di New York abbandonarono i loro appartamenti e si diedero alla fuga, creando
caos per le strade. La radio, come mezzo di comunicazione di massa, era
relativamente nuova e gli ascoltatori non erano abituati a distinguere la fiction dalle news, la fantasia dai fatti reali.
Oggi gli
ascoltatori radiotelevisivi sono così smaliziati che sarebbe assurdo pensare di
dover fare precedere ad ogni puntata di House
of Cards un messaggio che li avvertisse che Frank Underwood non è il vero
presidente degli Stati Uniti, o che non esiste alcun commissario di nome
Montalbano a Vigata (ammettendo per assurdo che Vigata esista davvero). Diciamo
che il codice televisivo, inteso come insieme di norme, regole e consuetudini
riguardanti ciò che viene trasmesso, è stato introiettato dal pubblico, a
prescindere dal profilo sociodemografico e dal livello di istruzione dei
singoli individui. Oggi chiunque – a parte rare e gravi carenze cerebrali – è
allenato a distinguere in televisione una soap opera da un telegiornale, e
questo perché sono trascorsi numerosi decenni di familiarizzazione col mezzo.
Al contrario, le
cronache degli ultimi tempi fanno invece pensare che la familiarità del grande pubblico
con i social media sia ancora agli albori. Non intendo ovviamente la diffusione dei social, che ha raggiunto
la quasi totalità della popolazione (sono in pochi a non avere Facebook in
tasca, nel proprio smartphone), quanto piuttosto la comprensione del codice che
li regola e, in particolare, l’attribuzione del grado di attendibilità di un
messaggio che si diffonde attraverso i social network.
Cosa è opportuno
fare quando si interagisce attraverso i social? Cosa ci si aspetta e quali
conseguenze può avere un messaggio ricevuto, inviato o condiviso? Bisogna
fuggire di casa se si vedono gli alieni sullo schermo? Ma soprattutto, quali
filtri vengono a porsi tra una notizia fondata e il resoconto che ci raggiunge?
Queste
banalissime domande non trovano risposte condivise. Se esiste la necessità a
livello accademico di studiare le cosiddette fake news come fenomeno sociale, e se esistono diversi esempi di
rabbia e razzismo che esplodono in modo virale con frequenza quotidiana, come
minimo ci si può aspettare che la maturazione, da parte del pubblico, impiegherà
ancora molto tempo. E un giorno lontano, gli studiosi, guardando alle
interazioni online di questi anni, si domanderanno: ma come facevano quei
trogloditi digitali a insultarsi apertamente tra di loro, a mostrare
spudoratamente il proprio lato razzista senza nemmeno preoccuparsi della
propria reputazione e a credere alle tante stupidaggini che circolavano
vorticosamente in rete, dalle pseudo-scienze alla medicina fai-da-te?