Il romanzo di
Matteo Caccia intitolato Il silenzio coprì le sue tracce (Baldini&Castoldi, 2017) affronta una tematica
assai cara all’antropologia che potrebbe sintetizzarsi con la seguente serie di
opposizioni: natura vs cultura, animale vs uomo, selvaggio vs domestico e
rurale vs urbano.
Zambo è il
protagonista di questa storia, un uomo che lascia Genova per incamminarsi a
sud, lungo l’Appennino tosco-emiliano, attraversando luoghi impervi e desolati
in compagnia del suo cane Tobia. A fare da contraltare alla docilità, alla
sottomissione e all’obbedienza del cane, animale da secoli al servizio dell’uomo,
Matteo Caccia esalta – non senza ammirazione – la figura del lupo, tanto simile
per carattere e patrimonio genetico all’amico fidato dell’uomo ma ben diverso
per spirito di avventura e libertà. Malgrado abbiano dei lontanissimi antenati
in comune, il cane è comunque un essere addomesticato, mentre il lupo rimane
volitivo e indipendente. Tra le due realtà Zambo sembra non saper scegliere,
anche se la propensione è tutta verso la libertà e la natura. Per esempio, il
traffico urbano, il suono dell’ascensore condominiale e la mancanza di privacy a
causa delle pareti sottili che permettono di sentire lo sciacquone dei vicini
non fanno proprio per lui. Lo stesso legarsi a una donna, improvvisamente
apparsa e misteriosamente scomparsa, ha per Zambo un che di ferino, dove la
sessualità è diretta e spogliata del fardello culturale che la appesantisce con
aspettative sociali e morali.
Il viaggio del
protagonista ha una finalità ben precisa, ma la scelta di farlo a piedi è il
primo passo verso una scoperta che andrà ben oltre lo scopo per cui lo si era
inizialmente intrapreso. La montagna ha un’anima tutta sua; anche lo scorrere
del tempo è diverso rispetto alla città. Zambo all’inizio non ne è consapevole,
eppure, man mano che prosegue nel suo cammino, si capisce chiaramente che il
suo presente si immerge ineluttabilmente in un passato fatto di poche luci e
molte ombre da svelare. Il tempo si dilata, come una bolla che si
gonfia e resta sospesa a mezz’aria. A volte la bolla esplode, e riporta
brutalmente Zambo alle preoccupazioni della quotidianità, ma poi si ricompone presto,
lasciando che Zambo torni a immergersi in un presente nel quale il futuro conta ben poco (il protagonista si
libera dell’orologio, a un certo punto), dove gli appuntamenti non esistono e
la temporalità del mondo moderno è tenuta lontana dai confini della natura
selvaggia.
Ma torniamo al
lupo. Questo animale, che intreccia il proprio cammino con quello di Zambo, è
all’inizio una curiosità. Ben presto, però, diventa un’ossessione per il
protagonista fino a rasentare la follia. È sempre lo stesso lupo, è sempre lui
che scompare e riappare: un giovane esemplare ribellatosi al potere del padre e
in cerca di una femmina per formare un nuovo branco. In questo Zambo gli
somiglia molto, perché anche lui ha una sete inestinguibile di affrancamento e
indipendenza da un padre troppo assente, distratto dalla carriera, dal
carattere forte e risoluto, capace di provocare nel figlio un senso di
inferiorità bruciante per dei successi troppo difficili da replicare.
Immagine tratta dal romanzo |
Dopo alcuni
incroci casuali, gli incontri tra Zambo e il lupo si fanno più frequenti e più
significativi, mentre il desiderio di Zambo pende sempre più a favore di una
vita lontana dalla cosiddetta civiltà (il solo pensiero di votare lo fa andare
su tutte le furie).
La città e la
montagna sono dunque incompatibili. La stessa violenza ha significati diversi,
specialmente nel contesto della resistenza partigiana, di cui Zambo è un
anomalo prodotto in quanto, a sua volta, figlio di due estremi non possono
trovare un punto di contatto. Da un lato ci i fascisti, giù nelle città, che ricorrono
alla violenza per mantenere il controllo, mentre chi si ribella al regime si
rifugia su in montagna e usa la violenza per resistere, per ritrovare la
libertà negata. Una cosa è chiara, comunque: che la violenza è inevitabile, che
il combattimento non si può rimandare, che il ritorno a una felice vita in
armonia con la natura è una grande bugia inventata da chi la natura non la
conosce affatto.
A questo
proposito vengono in mente le teorie dell’antropologo Kluckhohn, che studiava
le culture in base al rapporto di dominanza, armonia o sottomissione dell’uomo
rispetto alla natura. Ci sono popoli che si abbandonano ai dettami della
natura, accettando e adattandosi a inondazioni, carestie, siccità; ci sono
altri popoli, invece, che la natura la vogliono dominare fino in fondo,
cambiandola e soggiogandola ai propri bisogni con dighe, infrastrutture e opere
di ingegneria. Se le palafitte della Cambogia lasciano che l’acqua scorra senza
inondare le case, le dighe olandesi sfidano il mare per tenere asciutte le case
dei propri abitanti. L’opposizione tra uomo e natura, tra i bisogni del primo e
la forza della seconda, è sempre conflittuale; quello che cambia è il modo di
affrontare il conflitto. Come ho detto prima, Zambo sembra indeciso, e oscilla
a più riprese tra i due estremi, anche se il suo oscillare è leggermente più
attratto verso una delle due posizioni, come una pendola inclinata che ha perso
la sua isocrona maestà. E allora, per trovare la soluzione a questo dilemma così
antico eppure così attuale, cultura e natura trovano simbolicamente un punto di
sintesi nel lupo stesso, che è capace di incrociarsi col cane per dare vita a
un ibrido nel quale i due aspetti, domestico e selvaggio, coesistono.
La storia viene raccontata
con uno stile asciutto nel quale non mancano, tuttavia, alcuni momenti di
profondo lirismo nelle descrizioni di paesaggi e stati d’animo: “Il cielo a est
si ingrigiva, mentre a ovest conservava a stento un color malva. Lui poteva
sentire il proprio respiro e la brezza impercettibile che al raffreddarsi del
mare spirava dalla costa. In quella bellezza senza tempo il mondo sembrava
abbandonato e spaventoso”.
Sempre per quanto
riguarda lo stile, si nota anche l’insolita scelta di inframezzare il classico
racconto in terza persona con alcune riflessioni, brevi e intime, rese in prima
persona dalla voce del protagonista. A questo si aggiunge anche il frequente
ricorso a termini tecnici presi in prestito dal linguaggio delle scienze
naturali per classificare piante e animali: in questo modo, attingendo dalla biologia per molti termini inusuali, Matteo Caccia contribuisce a
rendere più forte l’atmosfera che il romanzo vuole creare.
È questo, di
certo, un romanzo per chi ama la natura e le passeggiate, per chi vuole
osservare quel tratto interno compreso tra Maremma e Liguria da una prospettiva
inedita, e per chi è curioso di esplorare le pulsioni che alimentano attitudini
e comportamenti umani.
Giuseppe Raudino