giovedì 31 gennaio 2019

Eravamo tutti vivi (riflessioni sul romanzo)


Accenno un sorriso al pensiero della verità lapalissiana che si nasconde dietro il titolo del romanzo di Claudia Grendene, Eravamo tutti vivi (Marsilio, 2018). Eppure il sorriso dura poco per l’implicazione grave e drammatica di ciò che vuole significare: ora siamo morti, se non fisicamente, almeno nello spirito, specialmente se ci si paragona alla vitalità con cui si affrontava la vita in certi momenti del passato.
Il libro ha ricevuto una buona accoglienza dalla critica ma è stato sempre bollato come “romanzo corale”, ovvero come una storia generazionale di un gruppo di uomini e donne che, crescendo, raccontano a turno di come la loro storia personale si intrecci con quella di tutti gli altri, dai tempi dell’università agli anni in cui qualcuno si è messo già alle spalle un matrimonio fallito. Certamente il romanzo è anche questo, un intreccio di voci e relazioni, ma personalmente ritengo che sia un modo di categorizzare riduttivo.

Il tema della maternità

Eravamo tutti vivi, a mio avviso, è un romanzo che esplora a fondo la maternità, anche se questo tema così forte e archetipico è volutamente tenuto dall’autrice Claudia Grendene a un livello più profondo, che soggiace alle vicende quotidiane dei personaggi. A volte la maternità è minaccia e ostacolo a una unione passionale e travolgente, come quella tra Alberto e Anita; altre volte la maternità è fonte di estrema stanchezza (come nel caso di Chiara), se non addirittura la possibile causa indiretta di un tradimento (Elia nei riguardi di Isabella). C’è poi chi la maternità non riesce o non vuole concretizzarla, come nel caso di Agnese, lo spirito ribelle del gruppo, che vive una sessualità libera e assolutamente slegata all’idea di stabilità nelle relazioni sentimentali. Al contrario, Agnese sembra guadagnare in bellezza e in giovinezza da questa condizione, perché il suo corpo non è mai stato segnato da una gravidanza né messo a dura prova da sbalzi ormonali.
La maternità è presentata anche nella relazione, spesso complicata, tra una donna e il proprio figlio. Elia sembra ancora trascinarsi i dolori di un’infanzia dolorosa e conflittuale («Non posso stare da mia madre, la odio.») che lo induce a sbagliare ancora nel presente. Alberto non ha mai superato il trauma subito a seguito della morte di sua madre. Max, uno dei personaggi più caratterizzati e bizzarri, arriva a perdere il proprio equilibrio mentale sotto i colpi di violenza domestica inferti alla madre.

Maternità ed essere donna

Il romanzo progredisce a un livello più profondo nella riflessione sulla maternità applicandolo all’essenza femminile e al modo in cui questa viene definita proprio attraverso la presenza o l’assenza di maternità. La presenza equivale spesso alla sopraffazione e all’abuso da parte dell’uomo, che chiede alla donna di prendersi cura dei figli (penso ancora a Elia e Isabella) scansando le proprie responsabilità come nel copione ben conosciuto di qualunque pezzo di teatro patriarcale. Alla donna-madre è richiesto il sacrificio di subire in silenzio pur di non compromettere l’unità familiare (i genitori di Max). La donna-madre è pertanto succube e subalterna, incapace di trovare una dimensione di indipendenza, soprattutto lavorativa. Se Chiara è l’unica che riesce parzialmente nell’intento, il dialogo tra Alberto e Anita riportato qui di seguito è emblematico di cosa venga rimproverato alle donne-madri a tal proposito:
«Sembra che tu non sappia fare altro che farti mettere incinta.»
«Ora sei cattivo.»
Anita si alzò e scappò in bagno in lacrime.
[…] «Come hai potuto non pensarci?»
«È capitato.»
«Queste cose non capitano.»
«È così.»
«Ti lamenti della tua vita, vorresti un lavoro, del tempo per te e cosa fai? Figli. Altri figli. Figli di quello.»
Anita si girò. L’acqua scorreva.
«È questo che ti brucia?»
Lo spinse verso la vasca da bagno.
«Ci scopi e fai bambini. Mentre lui fa carriera.»

Contrariamente, l’assenza di maternità definisce la forza e il successo di una donna. Abbiamo già accennato ad Agnese, che è ancora in linea, a ma questo particolare si potrebbe aggiungere un apparente successo lavorativo ed esperienziale, visto che lei è l’unica ad aver viaggiato tanto e ad avere un lavoro interessante – se non invidiabile – all’estero.

Simulacri di maternità: moto e scrittura

Max e Alberto sono quelli che soffrono di più per la madre: Max avrebbe voluto vedere la propria ribellarsi alle percosse di suo padre; Alberto avrebbe voluto approvazione per i successi personali. Entrambi si scelgono dei surrogati per ovviare all’impossibilità di ottenere quello che vogliono, perché la madre di Max non denuncerà mai il proprio marito né la madre di Alberto potrà mai tornare in vita. Ecco allora che Max si sceglie la moto e Alberto la scrittura. Sia la moto che la scrittura sono due simulacri che assurgono quasi allo status di religione o, per lo meno, di ricerca di un’essenza mistica. Dopotutto, la moto Max l’ha avuta in regalo dalla madre e dunque ne rappresenta anche un ricordo (“La mamma ha staccato l’assegno e il rivenditore mi ha consegnato la moto, le chiavi, i documenti”) malgrado essa non sia stata in grado di salvarla dagli abusi che subiva. Un passaggio del romanzo evidenzia questo ruolo salvifico mancato, come quando si sognano grandi cose ad occhi aperti ma poi si torna alla realtà perché non si ha il coraggio di attuare quei pensieri tanto sospirati: “Dai mamma, salta su, ho detto. Lei era lì, assai bionda, con i suoi grandi occhiali da sole e il caschetto in testa. Dove vuoi andare, bella ragazza? Via di qua. Portami lontano da tutto, ha detto la mamma.”
La moto che Max si sceglie è “fantastica, tutta nera, ha la forma di una donna”. Anche in questo dettaglio si può leggere come essa non sia solo il mezzo per allontanarsi da ciò che lo angoscia ma anche una consolazione che, finanche nelle fattezze, si sostituisca all’immagine cui edipicamente anela. Sulla moto si sente un supereroe (Capitan America, per la precisione). Sulla moto può far scorrazzare le sue donne. Un particolare curioso, a tal proposito, è la sua ripugnanza nei riguardi di chi si concede troppo facilmente, perché ai raduni di motociclisti rifiuta tante donne pronte a scivolare sotto le sue lenzuola. La ragione del rifiuto è sempre la paura di contrarre qualche malattia venerea, ma si capisce subito che è solo una scusa, solo perché nessuna di loro, quanto a moralità, regge il confronto con il modello che ha in mente. A dire il vero, solo in un caso si innamora di una donna troppo facile, assai lontana dal modello di serietà materno ma, capito con rammarico l’errore, si ripromette di cercare delle donne che abbiano un comportamento più adeguato. Questa promessa si incarna anche in un proposito di Max che si riferisce alla parte del corpo femminile che per eccellenza simboleggia la maternità: “Le tette grosse. Le ho sempre scelte con le tette grosse dopo di te, per non inquinare nella mente la sensazione del tuo seno piccolo nelle mani”.
Dicevo che, oltre alla moto, l’altro simulacro è la scrittura. Alberto, privato della madre quando è ancora molto giovane e sottoposto alla rigida autorità del padre, cerca approvazione in quello che fa. Mi dà l’impressione che agisca sotto lo sguardo onnipresente della madre defunta, quasi come se cercasse di compiacerla con le proprie ambizioni, i traguardi, i successi. È così che decide di diventare uno scrittore, stordendo il dolore con l’alcol e vivendo con Anita una passione tanto travolgente quanto proibita e ostacolata. Tuttavia, sembra che lo sguardo materno non si stacchi mai da lui, così come emerge in un raro momento di verità favorito dall’euforia per la vittoria di un prestigioso premio letterario e da qualche bicchiere di troppo:
“[Alberto] [c]orse verso il portale e vi aderì con tutto il corpo a braccia aperte.
«Madre Chiesa. Anita, abbraccia la chiesa!»
«Questa chiesa non è una madre. È una tomba. Piena di tombe.»
«Anche mia madre è una tomba.»
«Andiamo in albergo, sei sbronzo.»
«Abbraccia la madre Chiesa!» urlò di nuovo Alberto.
Spalmato sul portale attaccò a recitare: «Ave o Maria, piena di grazia, mamma, guarda, tuo figlio è uno scrittore!»
«Alberto, andiamo in hotel.»
Anita lo prese per mano, gli sorrise: «Tua madre lo sa che sei uno scrittore.»

Struttura e ambientazione

Il romanzo ha una struttura insolita ma ben congegnata: parte da un tempo presente e va a ritroso nel passato man mano che i capitoli si susseguono. La scommessa con il lettore è che quest’ultimo avverta la curiosità di “cosa era accaduto prima” per proseguire con la lettura, mentre la narrazione classica vorrebbe che il lettore si domandasse “come andrà a finire?”.
Ecco, questo capovolgimento di prospettiva temporale è felicemente riuscito nel romanzo di Grendene, perché a svelare l’intreccio e a tenere viva la curiosità sono le premesse e non le conseguenze.
A fare da contraltare a questo procedere a ritroso c’è il diario di Max, la cui voce avanza cronologicamente, sebbene abbracci solo un arco di tempo limitato. È una voce che raggiunge il presente da lontano, e che spiega e integra le vicende raccontate in terza persona. Questo artificio narrativo consente all’autrice di calarsi nei pensieri più intimi di Max, ma anche di mostrare delle ossessioni e delle instabilità che emergono con più veemenza di una semplice descrizione in terza persona. Anzi, lo sguardo esterno che gli altri personaggi posano su Max si arricchisce e si compie nella totale pienezza solo dopo aver letto le pagine di questo diario.
Forse l’aspetto più commovente che emerge dal diario di Max è la sua grande ossessione per l’etimologia e per la filosofia (intesa anch’essa nell’accezione etimologica, amore per il sapere). Studiando l’etimo delle parole, Max spera di conoscere a fondo i problemi che lo turbano, di colmare una lacuna di sapere, di penetrare il dilemma tra la “consistenza e l’inconsistenza del reale”. Ne viene fuori una pagina che rivela il dolore, l’incompletezza e la ricerca di sé. Scrive Max: “Appunti: cosa sono le cavalle? Le cavalle sono la motivazione alla ricerca, la spinta al sapere. Le cavalle sono la ragione per cui voi siete qui a studiare filosofia. Sapreste individuare quali “cavalle” vi hanno condotto a questa lezione? Se c’è qualcuno di voi che sa dirmi perché oggi si trova qui, alzi la mano, ha detto il professore. […] Appunti: le cavalle rappresentano il dolore, la mancanza, l’incompletezza. La molla che spinge alla ricerca di un perché.”
Queste riflessioni di Max gettano una luce chiarificatrice anche sulla scelta di farsi regalare la moto, perché da centauro (il suo diario affronta anche l’etimologia della parola centauro) la cavalca inseguendo un perché e provando a lasciarsi alle spalle un dolore.
Sullo sfondo del romanzo si vede una Padova messa bene a fuoco, che brilla con tutte le sue bellezze ma anche con tutti i suoi vizi e difetti. A volte sono gli stereotipi di città universitaria piena di studenti fuorisede a essere presentati, senza risparmiare le goliardiche penitenze che vengono inflitte ai neolaureati; altre volte sono gli Spritz, la vita notturna e la cultura del bere a fare un brusio di fondo quasi assordante; altre volte ancora sono gli episodi di razzismo a essere presentati con efficacia (Padova è stata tra le prime città italiane ad accogliere un grande numero di culture ed etnie straniere, con tutte le conseguenze che tale convivenza ha comportato). Per chi non conosce Padova, il romanzo sarà certamente una fonte di curiosità inesauribile; per chi ci è stato, invece, non sarà difficile capire come mai un romanzo su questa città non possa fare a meno di citare piazza delle Erbe, piazza dei Frutti e il caffè Pedrocchi.
Giuseppe Raudino

sabato 26 gennaio 2019

Due romanzi: Mistero nel Mediterraneo e Stelle di un cielo diviso

Devo raccontarvi la verità. Quando vi ho detto che quest'anno avrei pubblicato un romanzo, non sono stato completamente sincero. Quest'anno, infatti, escono ben due romanzi firmati da me.

Il primo libro sarà la versione aggiornata e rivista di uno scritto che avevo affidato al selfpublishing molti anni fa. La versione che vedrà presto la luce è il risultato di una trasformazione avvenuta grazie ai miglioramenti apportati dell'editing e il confronto con professionisti che operano nel settore dell'editoria, come Annarita Calaudi, che qui ringrazio. Anche il titolo originale è stato modificato per esigenze di catalogo, ma la sostanza resta la stessa. Anzi, devo dire che il prodotto finale mi sembra meglio di qualunque versione che abbia mai potuto realizzare in passato con l' autopubblicazione (di cui, ovviamente, in rete non c'è più traccia).
Certo, sono trascorsi circa tredici anni da quando ho completato il manoscritto (o dovrei dire dattiloscritto ?) e in molte cose non mi riconosco più, ma penso che la storia rimanga comunque una storia che vale la pena di raccontare. Di questo sono certo. La definirei una storia pulita e sincera, alla quale sono affezionato, così come sono affezionato ai temi che affronta: isole, culture, dialoghi tra nazionalità diverse, soprattutto tra Nord e Sud. E poi c'è anche l'amore tra due ragazzi che scoprono le meraviglie di un luogo pieno di luce e di profumi immerso nel Mediterraneo andando in giro in Vespa e sentendo tutta la libertà sulla pelle dei loro corpi giovani che si avviano all'età adulta (alcuni lo definirebbero youngadult, se non addirittura romanzo di formazione o coming of age).
La casa editrice è la Genesis Publishing House, specializzata in ebook ma presente anche sul mercato tradizionale con la distribuzione "print on demand", per cui chi preferisce il cartaceo potrà acquistarlo tranquillamente.
Il titolo di quest'opera è Mistero nel Mediterraneo e sarà disponibile a giorni. A breve vi mostrerò la copertina, se avrete voglia di seguirmi in questa avventura. Nel frattempo vi do qualche anteprima: nel romanzo, tra le altre cose, si parla anche di Siracusa (la mia città d'origine), di Malta e di un affascinante pittore come Caravaggio, le cui opere nascondono un mistero che lega due realtà apparentemente scollegate (per questo dettaglio sono debitore a uno studio dell'amico Paolo Giansiracusa, che ringrazio e saluto, anche se sarà fatto debitamente nella prefazione).

Il secondo romanzo, invece, uscirà a primavera inoltrata con Alessandro Polidoro Editore, il quale opera la classica distribuzione in libreria e promuove le opere dei propri autori in modo più tradizionale, cioè organizzando presentazioni e partecipando a eventi nazionali (saloni del libro di Roma, Palermo, Torino, Napoli).

Anche qui riproporrò dei temi fondamentali che accompagnano i miei interessi, affrontandoli però con occhi ed esperienze diversi. Sarà un bel confronto, non solo per i lettori, ma anche per me stesso, in quanto testimone di due pezzi della mia vita che appartengono a momenti diversi, così simili eppure distanti temporalmente, ma anche così vicini nel modo in cui vengono presentati e svelati a chi vorrà leggermi.
Giuseppe Raudino

domenica 27 maggio 2018

Quadri - racconto tratto da Direzione Inversa (recensione)

Direzione Inversa
Nel racconto intitolato “Quadri” (tratto dalla raccolta Direzione Inversa, edizioni Il Seme Bianco 2017) Letizia Dimartino dà prova di una poderosa capacità di descrizione mantenendo costante per tutte le pagine un registro dalle forti connotazioni liriche. Si tratta di pennellate efficaci, di affreschi precisi e poetici che conferiscono pathos a una spazialità in continua sovrapposizione con sé stessa, una spazialità che torna a esplorare incessantemente gli stessi luoghi sebbene in tempi diversi: ora è Milano degli anni Sessanta, ora è Messina nel presente; e poi ancora la città dello Stretto vissuta nell’infanzia, nella maturità, nella giovinezza, a volte descrivendo il momento del congedo per raggiungere il Nord dalle brumose pianure, altre volte per farvi ritorno dopo un lungo viaggio in treno. La stessa Milano viene colta in diversi atteggiamenti, col cielo a strati, coi temporali, col “grigio densissimo di un autunno precoce” (p. 31), o magari attraverso il filo del telefono che congiunge l’amore di una madre per il figlio lontano. Qui e là appaiono anche altre città, (Roma, Capri, Catania, Modica, Taormina…) toccate di sfuggita in momenti piacevoli di vacanza o in momenti colorati dalla tristezza di una malattia. Si intuisce, insomma, che storia è colma di un amore per i luoghi abituali ma anche per quelli lontani, o meglio ancora “diversi”, in quanto la voce narrante si abbandona anche alla bellezza lirica di alcuni posti conosciuti solo attraverso il cinema e la letteratura: “Leggevo Cronin e avrei voluto vivere nel sud dell’Inghilterra. Leggevo Mann e sarei voluta vivere nel nord della Germania. [Avrei voluto] [e]ssere la Liv Ullman di Bergman e vivere in una livida Svezia. O più semplicemente in Romagna nella nebbia di Rimini inventata” (pp. 17-18). Accanto ai luoghi, c’è da dire che anche gli odori e le luci vengono meticolosamente registrati dalla penna di Letizia, che aggiunge alla memoria connotazioni sensoriali ben marcate, in un susseguirsi di latitudini diverse che hanno la propria peculiarità nei profumi dei dolci o nell’intensità del riverbero di certi raggi solari. L’io narrante confonde con sapienza i diversi strati del proprio passato, la cui complessità emerge appunto dalla giustapposizione e dalla sovrapposizione di questi “quadri” che attraversano il racconto. La storia si presenta, così, come un viaggio mentale che vaga nello spazio e nel tempo, in quell’immenso tempo incapsulato dai ricordi, proprio ora che l’ombra di una malattia costringe all’immobilità fisica. Eppure sorprende con piacevolezza lo slancio caparbio con cui questa immobilità, fattasi “eterno” presente per mezzo degli stessi ricordi, rivela perentoria la sua unica missione: mostrare vitalità nella sofferenza e mostrare una forza che non è destinata a svanire.
Giuseppe Raudino

domenica 17 dicembre 2017

Esper - Il terzo occhio (recensione)

http://amzn.to/2k3HdF1Il romanzo fantasy di Valeria Terenzi intitolato Esper – Il terzo occhio (Genesis Publishing, 2017) affronta le classiche problematiche adolescenziali, come il dilemma su cosa sia giusto o sbagliato, il peso crescente delle scelte che cominciano a pesare sulla coscienza di chi si sta trasformando in adulto, il discernimento tra bene e male nell’abisso del proprio animo, nelle persone che ci circondano e negli scopi che si vogliono perseguire.
La storia, ambientata nella provincia nordamericana, è fitta di elementi che possiamo ritrovare nello storytelling televisivo che sta attualmente conquistando il pubblico più giovane a livello globale: studenti che frequentano una high school, cittadine tranquille nell’apparenza ma cariche di misteri, piccole comunità dove il gossip si accompagna a misteriosi eventi che, oltrepassando il tragico, rivelano a volte una dimensione soprannaturale. Nel caso di Esper si va ben oltre il cosiddetto mistery per approdare appunto a un genere letterario più incline al paranormale, fatto di streghe, sensitivi, lupi mannari, magia e riti esoterici. Come nelle più classiche delle storie fantasy, il bene e il male vengono rappresentati in una lotta spietata che miete vittime da entrambe le parti, e nella lotta i protagonisti acquisiscono sempre più poteri soprannaturali o conoscenze occulte che serviranno nelle successive battaglie.
I temi che vengono toccati dal romanzo sono quelli che appassionano il cuore dei liceali: l’amore, l’amicizia, la sessualità, il bisogno di trovare il proprio posto nel mondo, o forse, più semplicemente, all’interno del gruppo.
In ultima analisi, il messaggio principale del libro potrebbe condensarsi nel tentativo di guardare a fondo l’animo umano, con la certezza di trovarvi una complessità più preziosa (ma anche più contraddittoria) delle semplici apparenze: chi sembra buono nasconde delle tracce dark, chi è cattivo può a volte rivelare una dose di bontà, chi ha dei modi bruschi non manca di tenerezza e affetto, chi è dotato di un’esteriorità perfetta può nascondere una bruttezza ripugnante nel proprio intimo.
Il romanzo è corposo e le scene sono ben costruite perché rivelino aspetti dei personaggi con il giusto ritmo. La narrazione è resa in prima persona e, proprio come nelle serie televisive, alterna il punto di vista dei personaggi principali, seguendone e sviluppando le cosiddette storyline. C`è da dire, infine, che non sembra felicissima la scelta di introdurre un diario per spiegare, in poche pagine (troppo poche se paragonate al respiro dell’opera), degli antefatti troppo complessi per essere affrontati in uno spazio tanto ristretto senza compromettere la chiarezza. Il linguaggio, poi, sebbene non abbia velleità estetiche ma spieghi bene quello che l’autrice si prefigge di descrivere o raccontare, presenta una coesistenza di registri a tratti troppo diversi tra loro, che lasciano trapelare ora espressioni eccessivamente formali, ora colloquialismi che andrebbero evitati al di fuori dei dialoghi o del discorso diretto.
Nel complesso il romanzo è gradevole e può appassionare con facilità i lettori e le lettrici che apprezzano questo genere.