martedì 31 ottobre 2017

L'olandese volante

Qualche tempo fa in molti hanno visto circolare in rete le foto del re d'Olanda Willem-Alexander seduto in cabina di pilotaggio di un aereo di linea della KLM, compagnia di bandiera olandese. Anche se nell'ambiente aeronautico la cosa si sapeva da decenni, il mondo si è stupito nell'apprendere che un uomo, prima principe e poi re, abbia pilotato un aereo passeggeri come un normalissimo primo ufficiale.
La legge, però, è uguale per tutti: se un pilota vuole tenersi il brevetto, deve accumulare un certo numero di ore di volo durante l'arco di un anno, e deve anche sottoporsi a visite mediche con una certa frequenza. Siccome il re d'Olanda è un pilota civile, ecco che deve obbedire alla legge e seguire tutte le procedure come ogni normale cittadino, anche se in realtà non è un "normale" cittadino.
Ora, vi immaginate il capo di stato di un altro paese che lavora (anche se per qualche ora al mese soltanto) come uno dei suoi sudditi? Pensate che sia possibile che un sovrano della casa reale di Marocco, Inghilterra o Spagna si mettano a guidare aerei per normalissimi passeggeri? Sarebbe concepibile che un alto dignitario della dinastia Saudita si mettesse alla guida di una petroliera o di un Boeing?
Si tratta ovviamente di domande retoriche, perché il caso olandese è unico al mondo.
Come mai, allora, è possibile tutto questo?
A complicare la situazione, dobbiamo considerare un altro elemento. Il re siede a destra, essendo primo ufficiale, e in quanto primo ufficiale esegue gli ordini diretti del capitano, che siede a sinistra nella cabina di pilotaggio. Questo vuol dire che il re, quando è ai comandi di un aereo, deve sottostare alle decisioni e alle direttive del capitano.
Un re che sta agli ordini di un civile, insomma. Da dove viene tutta questa modestia?
In Italia sarebbe impensabile, per chi detiene anche un piccolissimo potere, rinunciare al proprio status e mettersi al di sotto di chi ha meno prestigio sociale.
La spiegazione possiamo ricercarla nell'antropologia culturale, e a venirci in soccorso è uno studioso - guarda caso - olandese che si chiama Geert Hofstede. Le sue teorie sono molto utilizzate nella comunicazione e nello storytelling interculturale, perché tengono conto delle diversità tra culture a livello di nazioni.
Una delle dimensioni culturali analizzate da Hofstede che ci aiutano a capire il motivo per il quale il re dei Paesi Bassi può prendere ordini da un collega nella cabina di pilotaggio di un aereo è la cosiddetta "Power Distance".

Fonte: https://www.hofstede-insights.com/
Con Power Distance, Hofstede intende la misura in cui coloro che hanno meno potere nella società accettano la disparità secondo cui il potere è distribuito socialmente. Più è alto il coefficiente, maggiore sarà la "distanza" tra potenti e meno potenti. Culturalmente, questo si rivela con espressioni di superiorità (lasciarsi attendere, porre tanti filtri come collaboratori e segretari), con l'uso formale del linguaggio (dare del lei piuttosto che del tu) e con gesti di riverenza vari, che cambiano di cultura in cultura.
Come mostra il grafico estrapolato dal sito ufficiale di Hofstede, l'Italia si colloca - con un punteggio di 50/100 - a metà strada nella categoria della Power Distance, mentre l'Olanda viaggia a livelli più bassi (38/100).
Le differenze culturali si esprimono anche (o soprattutto) nei contesti lavorativi internazionali. Per questo il lavoro di Hofstede è prima di tutto un mezzo prezioso per capire le dinamiche lavorative in contesti multinazionali e multiculturali.
In Italia una delle opere più significative di questo antropologo olandese è stata pubblicato col titolo di Culture e Organizzazioni. Vale la pena darci una lettura, ma sopratttto vale la pena frenarsi la lingua prima di giudicare e porsi sempre qualche domanda quando si interagisce con altre culture nel campo dello sport, degli affari, della politica e dell'arte.

sabato 7 ottobre 2017

I trogloditi della rete



Quando, sul finire degli anni trenta, una radio americana mandò in onda il racconto di un’invasione aliena utilizzando lo stile tipico del giornalismo, molti abitanti di New York abbandonarono i loro appartamenti e si diedero alla fuga, creando caos per le strade. La radio, come mezzo di comunicazione di massa, era relativamente nuova e gli ascoltatori non erano abituati a distinguere la fiction dalle news, la fantasia dai fatti reali.
Titolo centrale: Radioascoltatori nel panico, prendendo sul serio un sceneggiato di guerra - In molti abbandonano le case per sfuggire a un "attacco col gas proveniente da Marte" - Le telefonate sommergono la polizia...
Oggi gli ascoltatori radiotelevisivi sono così smaliziati che sarebbe assurdo pensare di dover fare precedere ad ogni puntata di House of Cards un messaggio che li avvertisse che Frank Underwood non è il vero presidente degli Stati Uniti, o che non esiste alcun commissario di nome Montalbano a Vigata (ammettendo per assurdo che Vigata esista davvero). Diciamo che il codice televisivo, inteso come insieme di norme, regole e consuetudini riguardanti ciò che viene trasmesso, è stato introiettato dal pubblico, a prescindere dal profilo sociodemografico e dal livello di istruzione dei singoli individui. Oggi chiunque – a parte rare e gravi carenze cerebrali – è allenato a distinguere in televisione una soap opera da un telegiornale, e questo perché sono trascorsi numerosi decenni di familiarizzazione col mezzo.
Al contrario, le cronache degli ultimi tempi fanno invece pensare che la familiarità del grande pubblico con i social media sia ancora agli albori. Non intendo ovviamente la diffusione dei social, che ha raggiunto la quasi totalità della popolazione (sono in pochi a non avere Facebook in tasca, nel proprio smartphone), quanto piuttosto la comprensione del codice che li regola e, in particolare, l’attribuzione del grado di attendibilità di un messaggio che si diffonde attraverso i social network.
Cosa è opportuno fare quando si interagisce attraverso i social? Cosa ci si aspetta e quali conseguenze può avere un messaggio ricevuto, inviato o condiviso? Bisogna fuggire di casa se si vedono gli alieni sullo schermo? Ma soprattutto, quali filtri vengono a porsi tra una notizia fondata e il resoconto che ci raggiunge?
Queste banalissime domande non trovano risposte condivise. Se esiste la necessità a livello accademico di studiare le cosiddette fake news come fenomeno sociale, e se esistono diversi esempi di rabbia e razzismo che esplodono in modo virale con frequenza quotidiana, come minimo ci si può aspettare che la maturazione, da parte del pubblico, impiegherà ancora molto tempo. E un giorno lontano, gli studiosi, guardando alle interazioni online di questi anni, si domanderanno: ma come facevano quei trogloditi digitali a insultarsi apertamente tra di loro, a mostrare spudoratamente il proprio lato razzista senza nemmeno preoccuparsi della propria reputazione e a credere alle tante stupidaggini che circolavano vorticosamente in rete, dalle pseudo-scienze alla medicina fai-da-te?