Creare –
artisticamente parlando – sembra una necessità dell’uomo.
Leggevo qualche
giorno fa un pezzo sulla pagina culturale della Stampa, nel quale ci si
domandava perché tra tante arti e discipline come la danza, la pittura, il
teatro e al musica, quasi tutti vogliano diventare scrittori per soddisfare
questo ancestrale bisogno.
La risposta era
abbastanza semplice: la scrittura è alla portata di tutti, visto che chiunque
può mettere alcune lettere in successione, mentre per dipingere o comporre una
melodia ci vogliono più impegno, fatica e conoscenza. La scrittura, insomma, è
qualcosa che tutti sentono di padroneggiare.
Io penso che
oltre a questo valido motivo ci sia anche un’altra ragione, ovvero l’idea
stereotipata della vita interessante e avventurosa dello scrittore. Sono in
molti a credere che fare lo scrittore di professione sia fantastico perché non
hai né orari né capi a cui dover dare conto. Scrivere è, nell’immaginario
comune, un’attività che non richiede costanza o disciplina (basta cavalcare
l’ispirazione, quando arriva) e che un romanzo di duecentocinquanta cartelle lo
si scrive così, senza pensarci troppo, tra una lunga vacanza e l’altra.
Scrivere – lo
sappiamo bene – richiede ricerca, progettualità, riflessione: è un processo di
tentativo ed errore che va provato e riprovato, perché nessuno scrive romanzi o
saggi direttamente in bella copia. Il problema e che sono in molti a credere di
poterlo fare e, quando non c’è un editore che li ascolta, si lamentano del
tempo che stanno perdendo perché sarebbe già ora di trovarsi nei salotti
televisivi, sulla terza pagina del Corriere o ai tropici con il primo assegno frutto
dei diritti d’autore.
Scrivere, dunque,
richiede disciplina, come Moravia
che scriveva in orari fissi da ufficio,
Lucarelli che lavora solo di pomeriggio, Camilleri
che si mette alla scrivania
tutte le mattine alla stessa ora e Salgari
, che dalla scrivania non si schiodava
finché non aveva raggiunto il numero di pagine giornaliere prestabilito.
E poi? Cos’altro
è uno scrittore?
Essere scrittore
vuol dire essere per definizione interessanti e godere di una fama vasta seppur
non intrusiva, perché lo scrittore può passeggiare per le vie del centro senza
essere assalito dagli adulatori come acadrebbe per una rock star e senza
rinunciare a una buona parte della propria privacy che altre persone famose
possono solo sognarsi. E poi uno scrittore è anche un avventuriero, un tipo
tosto che tira tardi bevendo whisky nei locali più malfamati, circondato e
apprezzato da tipi poco raccomandabili, le cui caratteristiche vengono
minuziosamente riprodotte e incarnate dai personaggi dei suoi libri. Ma è anche
uno che frequenta eventi e cerimonie di gala, tra champagne, caviale e belle
donne che, innanzi a lui, hanno voglia di liberarsi dei loro Armani dalla
scollatura generosa e dalla schiena scoperta.
Infine lo
scrittore è un intellettuale che rappresenta il punto di riferimento per molti,
una bussola che guida l’opinione della gente, un termometro che misura le
emozioni della folla, un incantatore che ottiene tutto quello che vuole con la
magia della parola.
Lo scrittore
viaggia, conosce, ricerca, participa ai salotti, tiene rubriche sui giornali,
concede interviste, critica, osserva, ammonisce, recensisce, profetizza,
ipotizza, risolve, dibatte, controbatte, lotta, vive, muore ma rinasce, si
diverte, beve fino alla feccia, si prodiga, si rintana, riflette, ama, soffre,
spezza i cuori, conquista, ha successo in amore.
Davanti a tante
minuzia di dettagli, solo una domanda sullo scrittore resta senza risposta:
quando trova, secondo l’immaginario comune, il tempo di scrivere?