lunedì 24 aprile 2017

Malta in Vespa



(NB: questo racconto è stato letto da Matteo Caccia ai microfoni di Radio24 - Il Sole 24 Ore durante la puntata del programma "Voi Siete Qui" del 20/06/2014)



La prima volta che ho davvero sentito di trovarmi su un’isola è stato a Malta.
Tutto comincia quando un giorno d’estate tu e la tua ragazza (che poi diventerà tua moglie) montate sulla vostra Vespa ET4 150 e vi dirigete di buon’ora a Pozzallo, dove vi aspetta un traghetto per La Valletta. In realtà le cose non filano tanto lisce e c’è qualche intoppo coi carabinieri, che vi trattengono per una stupidaggine riguardante i documenti, tant’è che dovete rimandare la partenza alla sera.
In qualche modo, però, devi ammettere che i guastafeste della Benemerita vi hanno fatto un bel favore, perché arrivando a destinazione con le deboli luci della notte, mentre il traghetto procede lento tra le fortificazioni del porto, così solenni e imponenti e superbe, vi basta una sbirciata fuori dall’oblò per avvertire una drammaticità che vi travolge. Inaspettatamente, in vista dell’attracco, il regime dei motori precipita al minimo, cala il silenzio, l’atmosfera si fa quasi surreale, e i chiaroschuri là fuori ti fanno respirare una gravità invincibile, come se davvero ti trovassi dentro a un quadro di Caravaggio.

La cartina è spiegata sulla sella, davanti al primo bancomat dove hai appena prelevato valuta fresca. Di gps e navigatori ancora non se ne sente parlare un granché: devi orientarti alla vecchia maniera. Verso mezzanotte sei già alle prese con rotatorie da imboccare in senso orario e strade indegnamente dissestate che a Malta, come nel resto del Commonwealth, si percorrono rigorosamente contromano.
Arriviamo all’ostello nonostante tutto. Ci danno la stanza più bella, con vista sul mare e da lontano si vede perfino Victoria, sull’isola di Gozo, ma il vero splendore arriva l’indomani, quando un fascio di luce abbacinante penetra senza problemi anche attraverso le tende spesse e i pesanti drappeggi.
A quel punto ci ritroviamo carichi di una nuova euforia: abbiamo la cartina dettagliata di un’isola raggiante che misura soltanto 15 chilometri in larghezza e 27 in altezza; abbiamo una Vespa a nostra completa dispozione per esplorarla come meglio crediamo e ci sono un mucchio di bellezze architettoniche, storiche, artistiche, culturali, paesaggistiche e gastronomiche che ci fanno l’occhiolino. Pura ebrezza.
Ecco allora che ti studi a menadito la Lonely Planet, mentre  cominci a intravedere collegamenti con altre letture, oltre a un mucchio di curiose coincidenze e di tante altre storie che emanano un affascinante sentore di mistero, da Caravaggio ai Cavalieri Ospitalieri, dai templi megalitici più antichi di Stonehenge a alle catacombe paleocristiane, dalle prigioni sotterranee ai vari cuniculi e ipogei disseminati per l’isola.
Ti lasci prendere la mano, bisogna ammetterlo. Rinunceresti pure al mare cristallino pur di andare appresso a quelle visioni, ma poi ti ricordi che non sei qui in veste di ricercatore: la tua ragazza, dopotutto, vorrebbe anche sentirsi anche un po’ in vacanza. Ecco allora che abbandoni la Vespa in prossimità di baie remote (e inspiegabilmente deserte, per un’isola che è tra le più densamente popolate al mondo) e passeggiate sulla spiaggia, bevete un drink nella chiassosissima St Julian, respirate odore di capperi e origano lungo le polverose strade interne, che non conoscono l’asfalto ma semplici muretti a secco ai loro margini, disposti lì a biancheggiare in mezzo alla calura della macchia mediterranea.
A un certo punto si visita un villaggio pittoresco, col mercato rionale che riempie l’aria di odori e urla, coi pescatori che riparano le reti seduti davanti all’uscio e le barche vicine che ondeggiano tranquille di colori sgargianti. Decidi così che vale la pena restare un po’ più a lungo da quelle parti.
La stessa sera si cena a base di pesce su un terrazzino da cui si scorgono lontani i tremolii delle lampare, mentre sorseggiamo dei vini locali forti e imbevibili (certo, non poteva essere tutto perfetto), fino a quando in piena notte, a una ventina di chilometri dall’ostello, la cinghia di trasmissione decide di squarciarsi. Accostiamo, assicuriamo la Vespa a un palo della luce e ci incamminiamo verso un villaggio vicino, dove riusciamo a prendere l’ultima corriera. Che fortuna. Sì, perché la disavventura tutto sommato ci sta lo stesso, dal momento che ci porta a salire su uno di quei tipici autobus maltesi bianco-arancioni degli anni sessanta, tutti cromati, rumorosi, dall’estetica superba e dalle emissioni mefitiche e velenose. L’autista ha un sorriso simpaticissimo e una catenina d’oro adagiata sui peli del petto; guida tutto allegro e approssimativo, coi finestrini abbassati e la radio a palla, mentre inquina irrimediabilmente lungo la strada costiera.
Il proprietario dell’ostello ci mette in contatto con il suo simpatico amico George, che nel look ha più o meno le stesse preferenze estetiche dell’autista, solo che lui sta alla guida di una macchina scassatissima dotata di gancio e provvidenziale carrello. Andiamo a recuperare la Vespa, la facciamo salire sul rimorchio come un vitello mansueto e rassegnato. Nel giro di mezz’ora è già sotto le mani esperte di un altro George, meccanico specializzato della Yamaha dotato di apertura mentale verso altre marche.

Gli ultimi giorni di vacanza sono più rilassati. Si va spesso ad ammirare il blu profondo del mare che si staglia netto contro un cielo sempre terso. A volte si fa un tuffo, a volte ci si siede su una roccia a contemplare il rumore dei flutti.
Il mare è ovunque, in ogni pensiero: qui basta che ti guardi attorno per sentire ogni momento la sua presenza e, di rimando, la tua costante limitatezza. Il mare è un limite perentorio, che affascina e che ti racchiude, che circoscrive e ridimensiona, che ti obbliga a voltarti indietro e a riflettere su qualcosa di eccezionale: per spaziare e scorgere l’infinità dell’uomo basta che tu guardi verso te stesso, dentro di te, verso i limiti che puoi trovare anche su un fiore di roccia sbocciato nel cuore del Mediterraneo, senza dover ricorrere per forza al sublime della vastità o alla vertigine dell’immenso.