mercoledì 12 aprile 2017

La svedese (recensione)

La Svedese
Svedese. Un aggettivo che può definire un biondo chiarissimo quando ci si tinge i capelli, ma anche lo stereotipo secondo cui si vivono le relazioni sentimentali in maniera superficiale, senza legarsi troppo, alla stregua di un amore estivo che non è destinato a durare ma che si nutre del momento, del “qui e ora senza futuro”. Svedese è senz’altro sinonimo di leggerezza, di una modernità ormai datata, che negli anni Settanta aveva fatto sbocciare in seno alla cultura scandinava quell’amore libero tanto frainteso quanto invidiato alle nostre latitudini. Svedese, infine, è il simbolo di uno stile di vita che lascia troppo spazio all’impulsività e alle passioni senza trovare il coraggio di categorizzarli con le parole per definirne il valore più profondo.
Nel romanzo di Anna Pavignano (La svedese, Verdechiaro Edizioni, 2017), la protagonista racconta in prima persona di una immensa passione e di un amore autentico che, a causa dei traumi subiti nella giovinezza e mai affrontati seriamente, viene vissuto come impossibile e forse addirittura immeritato. La superficialità diventa qualcosa di necessario per mascherare quanto sia profondo questo inconfessabile sentire. Allo stesso modo, la profondità del sentimento viene accostata alle profondità di quelle zone più oscure del proprio animo, dove fluttuano sensi di colpa e delusioni primordiali, ricatti e malattie, abbandoni e incertezze. Si tratta di abissi dai quali è difficile risalire e verso i quali si fa sempre più intenso un sinistro richiamo di vertigine, di voglia di sprofondare, di morte e distruzione.
Perfino una nuova vita – come quella di un puledro appena dato alla luce, una cucciolata di cagnolini indifesi o un bambino che sembra un pezzo rubato al padre per amore ed egoismo – non riesce a scacciare via questo anelito nichilista, né tanto meno riesce a risvegliare quell’istinto materno che dovrebbe capovolgere la prospettiva di chi – depresso – trova un palliativo nell’alcol e un obbligo nell’immobilità. La vita della protagonista è un lungo e continuo sacrificio in nome di quell’amore che crede di non poter raggiungere o meritare, un totale annullamento di se stessa, alla quale lo specchio restituisce sempre un'immagine di donna inadeguata, tanto da spingerla a cambiare radicalmente guardaroba e acconciatura, gesti e abitudini, fino a cancellare la propria identità nella speranza di essere accettata.
Senza rendersi conto, la protagonista si infligge una pena per tutto il male cha ha ricevuto incolpevolmente da bambina: è per prima lei stessa a negarsi la felicità dando per scontato, in un certo senso, di non meritarla, e poi accontentandosi di ciò che non può realmente darle pienezza e completezza in amore.
A un certo punto, però, la maschera crolla, o per lo meno non regge più la tensione a cui è sottoposta. La rottura è totale e ineluttabile. È punto da cui non si torna più indietro. L’armadio viene ripulito dai vecchi costumi e dagli scheletri che ancora si nascondevano al suo interno. D’un tratto è chiaro quanto sia stato assurdo barare: “Che cosa sarebbe diventato questo amore se lo avessimo assecondato anziché torturarlo con le nostre ambiguità? […] Che ne sarebbe stato di noi, se fossimo stati sinceri, se avessimo avuto più coraggio? […] Sono qui, sotto casa tua, sono venuta perché ti amo troppo e non potevo più stare un minuto senza di te. […] Queste parole avrei dovuto dire allora. Parole. Banali. Appassionate. Rischiose.”
Ecco, allora, cosa mancava: il coraggio di dire le parole giuste nel momento opportuno, perché in fin dei conti “[a]bbiamo bisogno delle parole per decifrare tutto, anche l’amore. L’emozione, da sola, s’inganna. Senza le parole si può confondere la dedizione col disinteresse, l’amore con un gioco superficiale”.
Il lettore, dopo un lungo cammino di sofferenza e di passione attraverso le profondità della psiche femminile, è invitato a capire se ci sia ancora tempo per le parole giuste e se si sia davvero chiuso lo spazio per l’ambiguità e lo sconforto.
Giuseppe Raudino