martedì 30 maggio 2017

La fine di un sogno spensierato: "Tre ragazzi immaginari" di Enrico Brizzi (recensione)

Tre Ragazzi Immaginari - Brizzi
Il tempo si mischia, il presente si fonde al passato in più riprese attraverso la memoria dell’io narrante che, da una sequela iniziale di ricordi affidati più al caso che alla cronologia delle proprie esperienze, trova un sottile filo conduttore più ordinato nella parte centrale e in quella finale del romanzo. L’effetto che in questo modo si viene a creare è particolarmente suggestivo, poiché, da una sorta di caos iniziale, il testo si trasforma in un microcosmo capace di sorprendere e, al contempo, di suscitare aspettative nel lettore.
Il romanzo (edito da Mondadori) si sviluppa su due piani distinti che mostrano tuttavia di possedere numerosi punti di contatto: da un lato la cronaca degli ultimi tre giorni di carnevale trascorsi a Bologna, che sembrano rappresentare per il protagonista quasi ventiquattrenne l’ultima occasione di puro svago e di sano divertimento fuori dai canoni, durante il quale è concesso l’ultimo sprazzo di immaturità prima dell’ingresso nel mondo adulto; dall’altro l’incontro e il colloquio con alcuni bizzarri personaggi che ne rievocano, con le loro parole, i momenti più significativi del passato.
La riflessione, pertanto, è quasi un obbligo: ripercorrere sia i momenti più belli che quelli carichi di maggior tensione, da quando era ancora un quattordicenne fino alla soglia dei vent’anni, determina nell’io narrante alcuni giudizi su alcuni episodi del passato che talora sono severi, talora lo fanno sorridere a denti stretti, o addirittura, in altre occasioni, suscitano in lui un grande rimpianto e un’immensa nostalgia. E proprio la nostalgia sembra essere il sentimento che con maggiore spinta si pone in rilievo, perché il passato di chi racconta è fitto di struggimenti amorosi, di grandi ostacoli e di insistenze continue e caparbie che rendono meritatamente ripagata la sua tenacia e l’eccezionale determinazione.
Chiara, il primo amore, così puro e meraviglioso come in quasi tutti i sogni degli adolescenti, è una fanciulla sublime; è «un cigno» che sa distinguersi da tutte le altre per la grazia del portamento, per la bellezza e per l’intelligenza: una figura, insomma, che difficilmente un ragazzino di quattordici anni può riuscire a credere reale, anche dopo averla conosciuta e corteggiata. E poi l’inesorabile scansione del tempo, la crescita dei corpi, delle forme, e dei desideri, che tendono a modificarne lievemente la concezione perché chiedono di apprezzare la bellezza anche dal punto di vista fisico, sensuale. Ma il ricordo di Chiara non è l’unico: ci sono le corse in bicicletta fino a scuola, le assemblee di istituto, i compagni di classe; la vita fervente del liceo, con tutti i suoi numerosi studenti, pronti a scambiarsi opinioni e a discutere dei propri miti adolescenziali, della musica che si ascolta, dei gruppi rock preferiti; e poi ancora: le bravate, i problemi vissuti da giovani che si lasciano trasportare più dai sentimenti che dalla ragione, le serate trascorse fino a tardi fuori di casa per assistere ai concerti, oppure seduti al tavolino di un pub, in compagnia, bevendo una birra tutti assieme…
Dunque il romanzo presenta con estrema sensibilità e con grande piacevolezza un copione che molti hanno già vissuto e che ricordano, forse, con altrettanto rammarico. Così è facile affermare che il tema dominante dei tre ragazzi immaginari sia la riluttanza a dover salutare per sempre quel mondo meraviglioso che è la primavera della vita e arrendersi di fronte all’avanzare degli anni. Anche perché – è quasi naturale inferirlo – i tre ragazzi ai quali l’autore fa cenno nel titolo non sono altro che la stessa persona contestualizzata in tre differenti circostanze: il protagonista quindicenne, il protagonista ventenne e il protagonista ventiquattrenne, giunto al “capolinea” della giovinezza.
Tenendo conto di quest’ultima interpretazione è possibile capire anche il perché siano stati scelti come “sfondo” al romanzo gli ultimi giorni di carnevale. Il punto chiave sta nella “maschera”, in quella stessa maschera che il protagonista aveva deciso di indossare quando aveva solo diciassette anni, affermando con convinzione che «le delusioni avrebbero colpito il semplice che fingevo di essere, non il vecchio Me Stesso orgoglioso e vulnerabile». In poche parole «il fottuto Semplice Mascherato [era] un pazzo giovanile che per timidezza e malintesa forza di volontà aveva sempre da dirmi qualche cosa, e, in determinate circostanze di maggior pericolo, s’ostinava a voler prendere il comando». Qualche riga più avanti, e l’io narrante confessa con ammirevole sincerità il timore che prova verso il “mondo”, avvalorando la nostra ipotesi: «Non sono pazzo. Sono solo un ragazzo, e alle forme del mondo non si sa mica tanto bene come rispondere, e allora può sembrarti indispensabile dover interpretare te stesso come qualcosa che ama le maschere, e solo con le maschere potrà provare a scamparla».
La maschera, quindi, “salva” in un certo senso il giovane protagonista e lo guida attraverso tutti i problemi da adolescente, aiutandolo a superarli. Ma adesso, da tenero ragazzino che era, è divenuto grande e inequivocabilmente adulto: il carnevale è finito, la maschera viene messa in disparte e bisogna cominciare a vivere facendo parte di quel mondo che fino a qualche anno prima rappresentava un motivo di panico. Tutt’al più, rovistando fra gli oggetti che appartengono al nostro passato, è concesso tenere fra le mani solo per qualche istante la gloriosa maschera dei vecchi tempi. E, magari, lasciare che i ricordi fluiscano liberi per un po’.
 
(recensione apparsa su Primo tra il 2000 e il 2002)
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