domenica 9 luglio 2017

L'altro addio (recensione)




Tomassini L'altro addioL’altro addio di Veronica Tomassini (Marsilio, 2017) è la lunga confessione di una voce narrante che si rivolge alla persona amata. Non tanto il ricordo dei rari momenti di felicità insieme, quanto il dolore e la disperazione per il distacco e la nostalgia sono al centro delle pagine di questo romanzo, che è scritto con un linguaggio tanto ricercato da rasentare talvolta il parossismo stilistico e un intreccio che si avviluppa su se stesso al limite della compulsione. I pensieri si sovrappongono, spariscono, poi si ripresentano con più prepotenza, rafforzandosi nelle ripetizioni ossessive, scintillando di luce diversa man mano che i salti temporali si alternano nel corso della narrazione. Il romanzo di Veronica Tomassini non vuole soffermarsi sull’intreccio degli avvenimenti, che tutto sommato è semplice, ma si protende verso le emozioni che attraversano i personaggi, con i loro atteggiamenti estremi, le loro miserie, le loro immancabili contraddizioni.
Sebbene un indizio molto sibillino sembri svelare il nome del protagonista, la voce narrante si rivolge all’uomo col solo vezzeggiativo di “misiek”, un termine polacco quasi intraducibile in italiano che dà l’idea di un uomo di grande corporatura che ispira tenerezza.
Ma chi è il protagonista? Senza dubbio è un “[p]ortatore di guai e di dolore nella vita altrui” (p. 132) capace di travolgere ogni persona che incroci il suo cammino – e questo vale soprattutto per le donne. Nato in una cittadina rurale della Polonia, ben presto sceglie la strada della criminalità (rapine, sfruttamento della prostituzione) pur di permettersi un alto tenore di vita. Il grande salto sarà quello di tentare fortuna in Italia, ma il viaggio si rivelerà una caduta nella disperazione, nella malattia, nel fallimento e nella sofferenza.
La parabola discendente di questo polacco si coglie, topologicamente, anche nella geografia dei luoghi: da Końskie a Varsavia, ovvero dalla misera giovinezza al lusso criminale, è uno spostamento verso Nord, verso l’alto; Siracusa, il miraggio della moda e della bella vita italiana, è invece uno scivolamento verso Sud, verso il basso. I rari momenti di felicità che il protagonista vive insieme a una donna siracusana, che è anche il narratore omodiegetico e intradiegetico del romanzo, lasciano il passo a una natura decadente e corrotta dal male che infligge e che si lascia infliggere. Eppure lui resta bellissimo agli occhi di chi lo ama, nonostante il suo abbruttimento fisico, l’andamento claudicante, nonostante certe inclinazioni che sporcano la sua moralità. L’andata a Milano, scappando dalle responsabilità di padre e marito, è un tentativo di rimettersi in piedi, di sollevarsi, di puntare nuovamente in alto nella topografia delle sue irragionevoli aspirazioni.
L’altro addio diventa, pertanto, un distacco duplice, il commiato dolorosissimo di chi si vede separato due volte – dalla fine di un amore e dalla fine di un’esistenza.

Il romanzo è intriso di forti contrasti, come le brume ghiacciate della Polonia e il sole accecante della Sicilia, come l’abbondanza di denaro e la miseria, come la morte ineluttabile e la guarigione sperata. Proprio il tema della guarigione si intensifica verso le ultime pagine, lasciando intendere al lettore che si tratta di una guarigione dello spirito piuttosto che del corpo, mentre appare chiaro che la sofferenza del protagonista aveva un significato puramente cristologico, di riscatto ed espiazione. Impossibile, in questo senso, non cogliere il parallelismo col Cristo nell’immagine del protagonista sdraiato in un letto di ospedale e “la fronte corrucciata di un medico chino sul […] [suo] costato” attraverso il quale si tentata di drenare ciò che si accumulava nei polmoni. Dunque la malattia fisica, per quanto vera, è solo la metafora di un altro male, come spiega la voce narrante: “[S]offrivi per il male oscuro e tenace, il male che ti scavava in petto: si chiamava nostalgia” (p. 202). La nostalgia, di fatto, è la vera nemica del protagonista, capace di torturarlo coi ricordi dell’adolescenza, con gli odori e i sapori della terra natale, con i fiumi, i monti, i boschi, le case e la gente della sua Polonia, sempre troppo lontana dall’Italia e tanto anelata. Naturalmente il male è anche presente nei ricordi, un male – sia ben chiaro – che non è malvagità ma incapacità di resistere alle tentazioni, ai soldi facili, all’alcol, alla sessualità a volte smodata e a volte egoistica, al bisogno di rivalsa dopo aver subito torti e violenze da un padre adottivo da cui il protagonista non ha mai ricevuto amore.
Ecco allora che la morte si adombra in ogni momento della vita, dal più intenso al più banale: l’orgasmo è rigorosamente appellato alla francese come “piccola morte”, così come la morte è presente nel falciare uno a uno tutti gli sciagurati compagni di bevute, dai parchi siracusani ai sottopassaggi milanesi. Effettivamente molti personaggi hanno già l’aspetto di un cadavere quando sono ancora in vita: persone che inspiegabilmente si muovono e respirano nonostante la loro condizione sia già segnata per i brutti giri che frequentano o per la disperazione che spesso si trasforma in suicidio – poco conta che sia istantaneo come il lanciarsi sotto le rotaie o lento, come l’abbandono all’alcolismo, alla trascuratezza, alla resa di fronte alla malattia. La morte si insinua come una maledizione, invade il corpo di qualcuna che viene amata e posseduta, oppure trasuda dall’inadeguatezza di chi non è pronto a sopportare la croce quotidiana e finisce per crepare a ridosso di un cassonetto o sgozzato in una campagna come un maiale nello scannatoio.

In questo mondo frantumato e imperfetto, dove è soprattutto il dolore a contagiare chi sta bene, dove il male sparge il seme della disperazione, la donna impersonata dall’io narrante prova in tutti i modi a redimere e a salvare colui che ama, colui il quale non sa sottrarsi al richiamo della propria distruzione. Un tentativo, questo, che appare come lo sforzo titanico di privarsi di qualcosa pur di donare salvezza: “La nostra rinuncia avrebbe forse servito il mondo, cosa se ne faceva il mondo della nostra rinuncia?” (p. 175). C’è da dire che questo tentativo di salvezza passa anche attraverso lo spirito di sacrificio e di rinuncia penitenziale, chiaramente riflesso nell’anoressia del personaggio che dà voce alla storia, un’anoressia che è inappetenza per la delusione sentimentale ma anche la cifra di un digiuno ascetico. La salvezza, nell’accezione più religiosa del termine, diventa pertanto la meta verso cui protendono sia il protagonista che la narratrice, sebbene ciascuno dei due lo faccia con mezzi appena diversi. Questa tensione sarà anche il loro più autentico punto di incontro dopo le afflizioni e le ripetute separazioni.

Quello che resta dopo aver letto questo romanzo è un senso di pietas come devozione verso il sacro, verso gli affetti e verso la patria (il protagonista sente una commovente nostalgia per la Polonia). Già la primissima pagina del romanzo si apre con questa dichiarazione di intenti narrativi: “Sai cosa sia la pietà, dimmi?” (p. 11). Chi narra la storia ha questa domanda incalzante per l’interlocutore amato e perduto. E poi ancora: “Mi sovveniva la pietà, cera calda sulla ferita. La pietà. Non era difficile immaginarti stravolto, agitato” (p.121). La voce narrante, a un certo punto, dà anche la propria definizione di pietà, rispondendo alla domanda che poneva nell’incipit: “Io la chiamo pietà, l’espressione più nobile e segreta dell’amore. […] Ti dico pietà, ascolta pietà pietà, cioè amore amore. […] Chiusi gli occhi, e ti amai da lì e per sempre” (pp.85-86).

In mezzo a tanta umanità violentata dalla sfiducia e dalla miseria, descritta senza risparmiare immagini crude e rivoltanti, il romanzo di Veronica Tomassini punta l’attenzione sulla pietà come amore e sulla speranza quale dono soprannaturale che si nutre di fede e di preghiera. Lo stesso nome della persona amata si trasforma spesso in una giaculatoria, mentre le immagini sacre dei grani di un rosario o dell’icona di Wojtyla saranno presentati come i segni di un cambiamento profondo, di una salvezza sperata e creduta, voluta e raggiunta.
Giuseppe Raudino