Il miscuglio complesso di espressioni prese
in prestito dai vari dialetti della penisola, l’uso di uno slang diretto e
incisivo e l’idea che il mondo sia un teatro e gli uomini siano personaggi
fanno del “Romanzo di Dostofocle” (Edizioni Palomar) la parodia del reale, la
messinscena dell’ipocrisia quotidiana.
Marino Giannini, giovane autore barese, non
dispensa oscenità e pungenti invettive contro tutto ciò che lo circonda,
affrettandosi a stagliare le proprie convinzioni politiche, religiose e sociali
su uno sfondo trasfigurato e metaforico di quello che è il contesto
contraddittorio di fine-inizio millennio.
Dostofocle, il protagonista, annuncia dopo qualche battuta preliminare:
“voglio partire e andare per il mondo”. In questo modo,
spostandosi da Bar-Bar fino a Precalioclope, l’allontanamento dalla casa (o,
meglio, dal “teatro”) natale diverrà la condizione che gli permetterà di
acquisire tutte quelle competenze per affrontare più opportunamente la vita;
durante il viaggio, l’alternanza tra azioni e pensieri, tra immagini concrete e
immagini oniriche, diverrà così incalzante fino al punto in cui difficilmente
se ne potranno distinguere agevolmente le fasi. Dostofocle, allora, sarà
blasfemo e sanguinario omicida, devoto asceta della spiritualità e fervido ricercatore
delle sue velleitarie aspirazioni amorose; il tutto, inquadrato in un
difficoltoso bilanciamento di contraddizioni e titubanze. Con molto coraggio,
Dostofocle riconoscerà nell’icona di Marie Bonadea (detta la Velata)
l’archetipo della propria donna ideale, così affascinante nella sua impalpabile
bellezza e nella sua sovrumana purezza di Madonna, a dispetto della
dissolutezza femminile odierna. Parimenti, il carretto volante che costruirà
con le proprie mani non è altro che l’incarnazione del desiderio represso di
volare e spaziare al di là di ogni limite. Prova della creatività di Dostofocle
saranno anche la macchina per colorare le nuvole e quella del vento, volta a
creare testi slegandoli dall’autore. E proprio a quest’ultima – mirabile l’idea
che “nessuno ne dovesse essere l’autore [del libro];l’ignoto la sua fonte;
l’anonimato il suo tramite e la sua fama” – viene demandato l’arduo compito
di diffondere “robe mai scritte” e di liberare i “segni dal viluppo
induttivo della logica applicata al concetto di significazione, o all’idea, ad
essa collegata, di comunicazione”. Peccato, però, che il povero Dostofocle
non si accorga che il suo mirabolante marchingegno adotti comunque un sistema
di significazione con tanto di codice prestabilito, e che richieda, come lui
stesso lascerà intendere nella pagina successiva, un processo induttivo
nell’interpretare quegli strani segni preposti ad una determinata
comunicazione.
Al di là di ogni contraddizione semiologica relativa a questo passo del
romanzo, c’è da dire che il tentativo utopico della macchina del vento possa
ascriversi alla sopraccitata ricerca di strumenti formativi che Dostofocle
persegue lungo il suo viaggio, e quindi suscettibile di errore proprio per
definizione.
Infine, la forzata ricercatezza di linguaggio che imperla tutto il
romanzo di espressioni difficili, di paroloni pronunciati con evidente
affettazione e di perifrasi dalla complessa sintassi, denunciano un
atteggiamento provocatorio, da parte dell’autore, finalizzato a pennellare
anche stilisticamente tutte le critiche mosse alla realtà dal punto di vista
dei contenuti.
Il ritorno a Bar-Bar ci mostra Dostofocle nella stessa scena iniziale
in cui lo avevamo trovato nell’incipit dell’opera. Ma il pellegrinaggio che si
è lasciato alle spalle, di certo, suggerisce al lettore qualcosa di più.
(recensione apparsa su Primo tra il 2000 e il 2002)
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