«Mi piace guardare questa mulatta nuda. È bellissima. Snella,
aggraziata. Fintanto che dura è la felicità.»
In queste poche parole si coglie tutta la forza impiegata dallo
scrittore cubano Pedro Juan Gutiérrez nella lotta contro la miseria e la
caducità della vita, descritta nel romanzo Trilogia sporca dell’Avana. Una vita di stenti in un paese povero e contraddittorio,
dove non resta che abbandonarsi al tragico destino, tentando di ingannarlo con
un po’ di rum e con un amore fisico che solo all’interno di quella cultura può
germogliare tanto schiettamente. Lo avevamo capito dalla solarità dei luoghi,
dai resoconti e dai reportage di chi vi ha soggiornato, dai film come “Buena vista social club” di Wim
Wenders, dalla musica come quella degli Jarabe de Palo, ma adesso è più
semplice averne conferma: Cuba è un’isola dai mille tesori e dai forti richiami
primitivi; viverla fino in fondo significa tutto e il contrario di tutto.
Gutiérrez, sia nel vivere che nello scrivere,
non sa ubbidire a nessuno. Nemmeno a se stesso: travolge il lettore
raccontandogli arditamente le avventure, le fantasie, gli sbagli e
l’ostinazione che lasciano intendere come, dalla condizione di giornalista
affermato, si sia imbattuto nel più disarmante fallimento. Non gli resta più
nulla da fare, e si convince che «non bisogna lavorare troppo, la vita è
breve». Il protagonista non è più nessuno.
Ma proprio in questo sconforto e in questa
inerzia attecchisce il seme della ribellione. E una speranza esplicita,
folgorante, inaspettata ma autentica lo porta a credere che l’indolenza possa
essere vinta insieme a tutti gli stenti: la forza sta nell’eterno reagire.
Il romanzo va letto tutto d’un fiato: la
scabrosità e la durezza di certe scene, unite all’ironia e all’argutezza delle
riflessioni, lasciano un retrogusto dal riflesso esotico e avvincente.
(recensione apparsa su Primo tra il 2000 il 2002)