lunedì 20 marzo 2017

Il romanzo di Dostofocle (recensione)



Il miscuglio complesso di espressioni prese in prestito dai vari dialetti della penisola, l’uso di uno slang diretto e incisivo e l’idea che il mondo sia un teatro e gli uomini siano personaggi fanno del “Romanzo di Dostofocle” (Edizioni Palomar) la parodia del reale, la messinscena dell’ipocrisia quotidiana.
Marino Giannini, giovane autore barese, non dispensa oscenità e pungenti invettive contro tutto ciò che lo circonda, affrettandosi a stagliare le proprie convinzioni politiche, religiose e sociali su uno sfondo trasfigurato e metaforico di quello che è il contesto contraddittorio di fine-inizio millennio.
Dostofocle, il protagonista, annuncia dopo qualche battuta preliminare: “voglio partire e andare per il mondo”. In questo modo, spostandosi da Bar-Bar fino a Precalioclope, l’allontanamento dalla casa (o, meglio, dal “teatro”) natale diverrà la condizione che gli permetterà di acquisire tutte quelle competenze per affrontare più opportunamente la vita; durante il viaggio, l’alternanza tra azioni e pensieri, tra immagini concrete e immagini oniriche, diverrà così incalzante fino al punto in cui difficilmente se ne potranno distinguere agevolmente le fasi. Dostofocle, allora, sarà blasfemo e sanguinario omicida, devoto asceta della spiritualità e fervido ricercatore delle sue velleitarie aspirazioni amorose; il tutto, inquadrato in un difficoltoso bilanciamento di contraddizioni e titubanze. Con molto coraggio, Dostofocle riconoscerà nell’icona di Marie Bonadea (detta la Velata) l’archetipo della propria donna ideale, così affascinante nella sua impalpabile bellezza e nella sua sovrumana purezza di Madonna, a dispetto della dissolutezza femminile odierna. Parimenti, il carretto volante che costruirà con le proprie mani non è altro che l’incarnazione del desiderio represso di volare e spaziare al di là di ogni limite. Prova della creatività di Dostofocle saranno anche la macchina per colorare le nuvole e quella del vento, volta a creare testi slegandoli dall’autore. E proprio a quest’ultima – mirabile l’idea che “nessuno ne dovesse essere l’autore [del libro];l’ignoto la sua fonte; l’anonimato il suo tramite e la sua fama” – viene demandato l’arduo compito di diffondere “robe mai scritte” e di liberare i “segni dal viluppo induttivo della logica applicata al concetto di significazione, o all’idea, ad essa collegata, di comunicazione”. Peccato, però, che il povero Dostofocle non si accorga che il suo mirabolante marchingegno adotti comunque un sistema di significazione con tanto di codice prestabilito, e che richieda, come lui stesso lascerà intendere nella pagina successiva, un processo induttivo nell’interpretare quegli strani segni preposti ad una determinata comunicazione.
Al di là di ogni contraddizione semiologica relativa a questo passo del romanzo, c’è da dire che il tentativo utopico della macchina del vento possa ascriversi alla sopraccitata ricerca di strumenti formativi che Dostofocle persegue lungo il suo viaggio, e quindi suscettibile di errore proprio per definizione.
Infine, la forzata ricercatezza di linguaggio che imperla tutto il romanzo di espressioni difficili, di paroloni pronunciati con evidente affettazione e di perifrasi dalla complessa sintassi, denunciano un atteggiamento provocatorio, da parte dell’autore, finalizzato a pennellare anche stilisticamente tutte le critiche mosse alla realtà dal punto di vista dei contenuti.
Il ritorno a Bar-Bar ci mostra Dostofocle nella stessa scena iniziale in cui lo avevamo trovato nell’incipit dell’opera. Ma il pellegrinaggio che si è lasciato alle spalle, di certo, suggerisce al lettore qualcosa di più.
(recensione apparsa su Primo tra il 2000 e il 2002)

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